La guerra in Ucraina, la tensione nell’Essequibo, la regionalizzazione della guerra in Terrasanta e il fuoco dell’artiglieria nordcoreana all’altezza di uno degli ultimi rimasugli della guerra fredda, il trentottesimo parallelo, sono le espressioni più manifeste e violente dell’aggravamento della competizione tra grandi potenze, che da alcuni anni è entrata in una fase ad alta tensione che vede le periferie del sistema internazionale al centro dello scontro tra i blocchi.
In molti dei teatri di crisi che stanno sovraccaricando le capacità attentive e responsive degli Stati Uniti, potenza egemone ma alle prese con un problema di sovraestensione imperiale, spesso è possibile intravedere la longa manus del duo divenuto trio: la coalizione Mosca-Pechino-Tehran. Diffidenti l’uno dell’altro, ma incapaci di sfidare gli Stati Uniti in solitaria, i tre patrocinatori della revisione del sistema internazionale, che vorrebbero trasformato da unipolare a multipolare, hanno dimostrato quanto siano eccezionali le potenzialità destabilizzative della loro unione in più occasioni e luoghi.
Dando per scontato che gli Stati Uniti continueranno a percorrere l’onerosa via del contenimento multiplo, la strategia per la navigazione del disordine globale che sembra aver prevalso su tutte le altre – nonostante il parere contrario di veterani della diplomazia come il defunto Henry Kissinger – è probabile e prevedibile attendersi dalla triade della transizione multipolare un maggiore ricorso al concerto multilivello. Per produrre delle policrisi esplosive. Con destinazione la transizione dallo scricchiolante ordine unipolare a uno multipolare.
Dalle policrisi alla permacrisi
Russia e Cina agiscono di concerto, secondo uno schema oplitico – una parte copre e sostiene l’attacco dell’altra – in un numero crescente di teatri. L’Iran, ferito ma non sconfitto dalla strategia della massima pressione della presidenza Trump, è tornato ad agire con assertività in Medioriente. Tutti e tre, dalle pianure dell’Ucraina alle acque del Mar Rosso, operano per moltiplicare la loro potenza di fuoco e per appesantire agli Stati Uniti il fardello del mantenimento in vita del tramontante momento unipolare.
Dalla campagna russa in Ucraina combattuta con droni militari iraniani e munizioni cinesi alle manovre del Venezuela nell’Essequibo co-sceneggiate da Vladimir Putin e Xi Jinping, passando per le acque del Mar Rosso che sono agitate per tutti meno che per i mercantili con bandiera russa o cinese, sullo sfondo delle fosche triangolazioni fra Gaza e il blocco Mosca-Pechino-Tehran che hanno reso possibile la guerra di Hamas in Terrasanta – come ha illustrato l’analista Elham Makdoum sulle nostre colonne –tutto sembra indicare che russi, cinesi e iraniani stiano scommettendo sulla produzione di una “permacrisi distribuita” – tante crisi in simultanea in più punti – per stressare e saturare le capacità attentive e responsive degli Stati Uniti.
Permacrisi. Questa sarà la parola del 2024 e degli anni a venire, che vedranno il peggioramento della competizione tra grandi potenze e un maggiore impiego da parte di Russia, Cina e Iran delle loro forze sussidiarie (proxy), le quali, reduci da un decennio di sfiancanti pressioni e logoranti difensive, stanno ora trovando crescente utilizzo come propagatori di anarchia produttiva. Il ritorno di fiamma delle politiche fallimentari di Stati Uniti e alleati in Medioriente e dintorni eurasiatici.
I proxy iraniani hanno dimostrato di essere in grado di chiudere selettivamente la tratta Indiano occidentale-Rosso al traffico da e per l’Europa e Israele: navi occidentali piratate, navi russe e cinesi indisturbate. Impossibile ignorare le implicazioni geoeconomiche in prospettiva di un Asse della resistenza mobilitato nella sua interezza: catene del valore dalla sicurezza a geometria variabile e con selezione all’ingresso. Senza dimenticare che il medesimo Asse, spesso descritto come una realtà arabico-mesopotamica, ha diffusione globale: Hamas e Hezbollah possiedono migliaia di agenti in Latinoamerica, Europa occidentale e Africa.
Satelliti e proxy russi e cinesi hanno dimostrato di poter stressare gli Stati Uniti e i loro alleati dentro e fuori il Medioriente, come rammentano la demolizione controllata della Françafrique da parte dei wagneriti operanti nel Sahel, le tensioni a orologeria nel Venezuela-Guyana, la riapertura di basi per l’intelligence dei segnali a Cuba e le periodiche manifestazioni di forza della Corea del Nord che vogliono essere un memo per gli Stati Uniti: Russia e Cina non sono sole nel Pacifico occidentale.
Guerra mondiale negli stretti della globalizzazione
L’Iran, per mezzo degli Houthi, ha cagionato uno spostamento straordinario del traffico marittimo commerciale dalla tratta Indiano-Rosso, via stretto di Bab el-Mandeb e canale di Suez, alla rotta del Capo di quattrocentesca memoria. Vittime eccellenti di questo attacco alla globalizzazione sono i distributori e i consumatori europei, oltre che israeliani, già colpiti dai rincari iniziati con la pandemia di COVID19 e proseguiti con la guerra in Ucraina.
La nascita di un’enorme no go zone dall’Indiano occidentale al Mar Rosso, apparentemente attraversabile soltanto da navi russe, iraniane e cinesi, potrebbe essere soltanto l’inizio, la prova tecnica, della guerra mondiale per gli stretti della globalizzazione.
I prossimi due stretti che potrebbero essere risucchiati dal vortice della competizione tra grandi potenze sono Malacca e Panama. Malacca è per Pechino ciò che Panama è per Washington: se aperto al traffico è fonte di tranquillità (e ricchezza), se chiuso può provocare un’asfissia economica gravissima.
La strategia cinese per Malacca ha assunto due forme: sviluppo di rotte alternative per aggirarla in caso di chiusura, anche su gomma e su rotaia, e corteggiamento della non allineata ma antiamericana Indonesia via BRICS+. Panama, invece, è una questione più complicata.
Parlare di Panama come satellite cinese non è ancora possibile, ma la cooperazione multisettoriale, ormai espansa anche agli affari militari, ha ricevuto un impulso straordinario negli ultimi anni. La Cina sta provando ad amicarsi Panama, aiutata dall’antiamericanismo radicato nella società e nella politica del piccolo paese, allo scopo di diventare il proprietario-ombra delle sue infrastrutture strategiche, tra cui il famigerato canale da cui passa il 40% di tutti i container che entrano ed escono dagli Stati Uniti. Il sogno proibito di Pechino è una crisi di Suez in salsa panamense. Per ora è fantapolitica, domani chissà.
Se Panama per ora è un partner strategico della Cina, e nulla di più, discorso diverso va fatto per il Nicaragua di Daniel Ortega: un governo formato da veterani sandinisti, la sicurezza appaltata a wagneriti e 007 del GRU, strutture affittate persino ad agenti di Hezbollah. Da qui la Cina scappò nel 2014-15, dopo che la presidenza Obama tentò la carta della guerra ibrida per far cadere il governo, reo di aver concesso ad investitori mandarini il diritto di costruire un faraonico canale, pensato per essere l’anti-Panama. L’instabilità avrebbe determinato la morte dell’investimento, giudicato eccessivamente rischioso da Pechino, ma non allontanò Mosca. Che decise di restare a fianco dell’antico alleato, inviandogli specialisti in controinsurrezione per fronteggiare la quasi guerra civile.
Oggi Managua è ancora in crisi, l’orteguismo vive sul filo del rasoio, ma la differenza (sostanziale) rispetto al passato è che il governo può contare sull’appoggio russo, iraniano e sul ritorno della Cina, ivi sbarcata nuovamente dopo l’adesione nicaraguense alla politica dell’una sola Cina. Adesione fortemente voluta da Ortega. Forse per convincere Xi che il canale, che potrebbe dare a Pechino le chiavi dei due oceani, s’ha da fare. Certo è che, dal Mar dei Caraibi al Mar Rosso, sarà permacrisi ai bordi dell’Impero americano.
Analista geopolitico, consulente di politica estera e scrittore. Laureato in Area and global studies for international cooperation (Università di Torino), si è formato tra Italia, Polonia, Portogallo e Russia. Specializzato in guerra ibride, questioni latinoamericane e spazio post-sovietico.
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