di Luca Ruggeri
La Cina, dal suo ingresso nel WTO (World Trade Organization) nel 2001, è divenuta una delle economie che ha riscosso grande interesse tra gli operatori economici. Presentata in una prima fase quale produttore di beni a basso costo, ruolo essenziale in un mondo sempre più globalizzato, è poi divenuta un mercato di sbocco di grande rilievo per numerose imprese occidentali, al punto da rappresentare attualmente il primo partner commerciale per la Germania. Sotto il profilo finanziario la Cina veniva descritta come una economia in forte e continua crescita, contrariamente ad esempio all’anemica Europa, ove risultava essenziale investire per potersi avvantaggiare di questo travolgente andamento; lo sviluppo di una numerosa e ricca classe media offriva inoltre una occasione da non perdere per gli asset manager internazionali di poter gestire la ricchezza appartenente a quella fascia di popolazione. Più recentemente l’attesa di un forte rimbalzo dopo la crisi cagionata dal virus Covid ha contribuito ad accrescere ulteriormente le aspettative circa l’economia cinese.
In realtà molte di queste aspettative sono state disattese e l’atteggiamento degli operatori economici nei confronti della Cina è assai mutato, ponendosi su una posizione molto più cauta. La fine di una narrativa talvolta acriticamente entusiasta nei confronti della Cina è dovuta a molteplici fattori.
Un evento che ha colpito assai negativamente la comunità economica è stato il blocco della quotazione in borsa di ANT, il braccio finanziario del gruppo Alibaba; caso del quale si era dato conto anche in questo blog. A molti la decisione circa la quotazione di ANT era infatti parsa il frutto della volontà del partito comunista di riaffermare il proprio predominio sull’economia, principalmente a scapito dei nuovi magnati del web che avevamo mostrato segni di insofferenza.
Altri provvedimenti di carattere spiccatamente dirigistico hanno ulteriormente danneggiato l’immagine internazionale della dirigenza cinese; tra questi provvedimenti, evento poco noto, l’aver imposto natura no-profit alle società di e-learning, classico caso nel quale un tratto di penna distrugge il valore degli investimenti in un settore precedentemente reputato assai promettente.
La crisi del mercato immobiliare cinese ha contribuito ad appesantire l’economia nazionale, nella quale l’immobiliare gioca un ruolo rilevante, ed ha concretizzato le perplessità sulle bizantine modalità di finanziamento da parte degli investitori esteri. In questo contesto una particolare rilevanza va attribuita alla crisi di Evergrande, enorme gruppo immobiliare cinese recentemente dichiarato in bancarotta; vicenda nella quale rimane tutta da comprendere la via giuridica per il recupero del credito soprattutto per i creditori internazionali, la percentuale che si potrà recuperare e le relative tempistiche. Se infatti la dirigenza cinese sembra intenzionata, fornendo il necessario supporto finanziario, a consentire il completamento delle iniziative immobiliari avviate, per evitare contraccolpi sociali, circa i crediti offshore in mano a soggetti stranieri vige la nebbia più fitta.
Come noto alle perplessità di natura prettamente economico/finanziaria si è poi sommato un quadro internazionale caratterizzato da un sempre più acceso confronto tra Cina ed USA che accresce i rischi geopolitici per gli investimenti diretti in Cina ed anche per la catena di forniture, come dimostra plasticamente la vicenda dei chip.
La crisi della narrazione cinese si è già concretizzata in una marcata riduzione degli investimenti stranieri e nella fuga di capitali dai mercati borsistici cinesi, come si può rilevare dal crollo dell’andamento dei relativi indici. Ironicamente i capitali fuoriusciti dalla Cina sono andati a rafforzare i competitors della Cina stessa; in particolare si sono rivolti al Giappone ed all’India, data la necessità degli investitori istituzionali di rimanere investiti in Estremo Oriente e nei mercati emergenti (per quanto possa apparire curioso la Cina è infatti considerata nei benchmark finanziari come un paese emergente).
Tutto questo non implica certo che la Cina cesserà a breve di essere considerata un importante mercato per le nostre merci e per gli investimenti ma il mutare dell’atteggiamento degli operatori economici si rifletterà certamente in una minore disponibilità a finanziare ed investire in Cina e la percezione di un maggior rischio rispetto al passato implicherà un più elevato costo di finanziamento per le imprese cinesi.
Ricercatore senior del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Economia, ha lavorato per oltre venti anni presso una grande banca italiana ed attualmente svolge la propria attività quale direttore generale presso un investitore istituzionale.
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