di Emanuel Pietrobon e Elham Makdoum

La sera del 13 aprile, lanciando in direzione dei confini israeliani un vasto sciame di aeromobili a pilotaggio remoto e di missili balistici e da crociera, l’Iran ha rotto un equilibrio durato più di trent’anni. Perché era dal 1991 che Israele non veniva fatto oggetto di un attacco missilistico.

Se è vero che la rappresaglia di Teheran per l’attacco israeliano all’ambasciata iraniana di Damasco è stata una débâcle in termini di effettività – tasso di neutralizzazione superiore al 90% –, è altrettanto vero che quel fallimento è stato ampiamente ricercato, dando a Tel Aviv ben settantadue ore per prepararsi all’impatto, e che le ragioni delle finalità sottocutanee di quest’operazione volutamente contraddittoria non sono state colte dalla maggioranza.

Tra coreografia ed esperimento

La ritorsione di Teheran per il blitz israeliano su Damasco è stata quella che nel gergo degli addetti ai lavori viene definita un’azione telefonata, o telegrafata, ovvero una rappresaglia concordata con gli altri attori coinvolti. È una tesi sostenuta da alcuni analisti autorevoli, come Michael Singh (ex Consiglio di sicurezza nazionale degli Stati Uniti) e Gregory Brew (Eurasia Group), e che, soprattutto, è supportata da una serie di evidenze:

  • l’Iran aveva informato con largo anticipo ognuno dei giocatori regionali e gli Stati Uniti di data d’inizio e modalità previste dell’attacco, dando a Israele il tempo necessario a predisporre delle efficaci misure di contenimento e neutralizzazione della ventura minaccia;
  • l’Iran si era affrettato a dichiarare la rappresaglia conclusa qualche minuto dopo il lancio dello sciame, configurandola come un’azione di autodifesa e veicolando un esplicito messaggio de-escalatorio;
  • le eloquenti prese di posizione di Joe Biden nel dopo-attacco, in particolare l’invito esteso a Benjamin Netanyahu ad accettare l’intercettazione di quasi ogni elemento dello sciame iraniano come una vittoria su Teheran e l’avvertimento sul fatto che Washington non avrebbe supportato un’eventuale risposta di Tel Aviv sul suolo iraniano.

In questa coreografia concordata hanno vinto tutti. Washington ha convinto Teheran a calibrare e a coordinare la reazione al raid del primo aprile, centrando l’obiettivo di evitare il surriscaldamento e l’espansione della guerra israelo-palestinese. Tel Aviv ha subito un attacco che non ha realmente messo a repentaglio la sua sicurezza nazionale né ha ridotto la credibilità del suo deterrente. Ma è Teheran, che, col pretesto di esigere il diritto a una vendetta, pena un’escalazione imprevedibile – la sempreverde teoria del pazzo –, potrebbe aver portato a casa il bottino più consistente.

Il calcolo iraniano

L’attacco dronico-missilistico dell’Iran ai danni di Israele è stato dimostrativo nel senso etimologico dell’aggettivo. Ha dimostrato al fronte delle potenze revisioniste, capeggiato da Russia e Cina, che gli Stati Uniti temono lo scenario di una guerra aperta con un rivale di grandi dimensioni e sono disposti al compromesso pur di scongiurarlo. Ha dimostrato alla umma che una sola potenza islamica ha il coraggio di sfidare Israele, per giunta colpendolo sul suo territorio, e questo significherà maggiori consensi anche tra gli sunniti – perché la questione palestinese è il collante che unisce tutti i musulmani. Ha dimostrato ad amici, aminemici, alleati e rivali le potenzialità dell’Asse della Resistenza – che per la prima volta, tra il 13 e il 14 aprile, è stato attivato in simultanea. E ha dimostrato che l’inviolabile Iron Dome può essere violato – perché i missili non inclusi nel copione, cioè quelli che dovevano cadere sulla base aerea di Nevatim, dalla quale sarebbe partito l’attacco all’ambasciata iraniana di Damasco, sono andati a segno.

L’Iran ha sfruttato l’irripetibile finestra di opportunità per massimizzare il profitto derivante dal compromesso con l’amministrazione Biden, che, già costretta dalla Russia a sottrarre risorse dall’Indo-Pacifico, non può permettere che scoppi una guerra tra grandi potenze in Medioriente. All’ombra della fallimentare messinscena da dare in pasto al pubblico di casa per placarne gli appetiti sciovinistici, Teheran ha condotto un esperimento per esplorare le capacità reattive e intercettive, nonché la “bucabilità”, dello scudo difensivo israeliano. Esperimento che segue le scoperte sulla saturabilità dell’Iron Dome effettuate da Ḥamās durante la mini-guerra del maggio 2021. In preparazione della resa dei conti che, gli iraniani ne sono sicuri, un giorno arriverà.

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Mentre l’Iran scatenava la tempesta di fuoco nei cieli di Israele, il mercato criptovalutario veniva travolto da uno dei più grandi terremoti speculativi dell’ultimo triennio. Nella notte tra venerdì e sabato, all’incirca ventiquattro ore prima dell’attacco iraniano, iniziava la liquidazione di posizioni leverage in bitcoin, ma anche in altre criptovalute, che nel corso del weekend avrebbe portato allo short selling di 1,5 miliardi di dollari.

Dietro la liquidazione su larga scala che ha poi portato al crollo momentaneo del mercato criptovalutario alla notizia del lancio dei primi droni e dei primi missili potrebbe nascondersi la regia dell’Iran. Parola di noti insider del settore, come Ash Crypto, secondo i quali a dare il via al gigantesco short selling sarebbero stati i crypto-wallet iraniani. Considerato che l’Iran è uno dei sovrani del criptoverso, questa ricostruzione degli eventi potrebbe essere più di un’indiscrezione.

La possibilità per l’Iran di alterare gli equilibri sui criptomercati non è speculazione: è realtà. Non solo si stima che il 5% di tutti i bitcoin venga estratto annualmente in Iran, anche se, sommando le mining farm clandestine che vengono scoperte e regolarizzate ogni anno sul suolo persiano – all’incirca tremila – e quelle off the records dei membri dell’Asse della resistenza – Ḥamās, Ḥizb Allāh e al-Ḥūthiyyūn sono dei noti estrattori di criptovalute –, è certo che la suddetta cifra sia superiore, ma gli specialisti di blockchain intelligence concordano all’unisono su una cosa: l’Iran ha costruito una delle cripto-economie più sofisticate e impermeabili del pianeta.

Gli iraniani utilizzano le criptovalute per evadere sanzioni, per finanziare i loro programmi militari, per dare sostenibilità all’Asse della resistenza e persino per finanziare l’importazione di beni ordinari. Le criptovalute sono la moneta parallela di Teheran e dei suoi proxy, che possiedono mining farm, crypto-exchange, hanno dipartimenti dedicati alle operazioni nel criptoverso, se le scambiano, le usano per lavare e per nascondere denaro, per speculare e per fare shopping di armi nel web oscuro. Come Ḥamās durante le fasi preparatorie della guerriglia a Israele.

Tornando alla grande liquidazione cominciata venerdì sera, e proseguita sabato notte, è più che plausibile che Teheran abbia shortato molti dei suoi bitcoin per rientrare nei costi dell’operazione. Un recupero che, se davvero l’Iran avesse trainato questa manovra speculativa, sarebbe stato semplice e veloce: alla vigilia dell’attacco il bitcoin era attestato sui settantasettemila dollari, ovvero bastava shortarne uno per ripagare tre droni di tipo Shahed-136 o Shahed-131 – entrambi con un costo unitario di circa ventimila dollari.

Considerati il vasto portafoglio di bitcoin detenuto dall’Iran – che è la base per una campagna di short selling –, il costo relativamente contenuto dell’attacco – si stima cento milioni di dollari, contro il miliardo di dollari sostenuto da Israele – e l’inclinazione alla speculazione degli iraniani e dell’Asse della resistenza, è più che plausibile che le voci sul ruolo iraniano nel crollo dei criptomercati non siano solo voci.

emanuel pietrobon
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Analista geopolitico, consulente di politica estera e scrittore. Laureato in Area and global studies for international cooperation (Università di Torino), si è formato tra Italia, Polonia, Portogallo e Russia. Specializzato in guerra ibride, questioni latinoamericane e spazio post-sovietico.

elham makdoum
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Esperta di crypto-intelligence, di blockchain analytics e di geopolitica delle criptovalute. Collabora con varie testate. Nel 2023 è stata relatrice alla Blockchain Beach, uno dei più importanti eventi italiani su criptovalute, blockchain e metaverso.