di Marco Malaguti

Riassumere la persona e l’opera di Nicolás Gómez Dávila (Bogotà, 18 maggio 1913 – Bogotà, 17 maggio 1994) in un breve articolo, nonostante egli stesso fosse un amante della sintesi e per questo motivo avesse scelto, nella gran parte delle sue opere, lo stile aforistico, è impresa ardua e, per certi versi, ingiusta. Tuttavia, a trent’anni dalla morte sembrerebbe altresì ingiusto, a chi scrive, lasciare questo filosofo e pensatore senza un breve ricordo.

Un testimone, non un filosofo

Gómez Dávila, se fosse ancora tra noi, biasimerebbe innanzitutto proprio la definizione di filosofo. Egli si concepiva piuttosto come un difensore ed un testimone. Di cosa? Un suo estimatore sarebbe tentato di rispondere, seppur di getto, indicando la Tradizione come quella cittadella che l’autore colombiano intendeva difendere, testimoniare e preservare, ma il termine è troppo nebulosamente confondibile con quello di consuetudine per essere utilizzato come risposta a questa domanda.

L’oggetto della difesa e della testimonianza di Gómez Dávila, in realtà, esula dai confini della ragione pur senza sconfinare mai nell’ambito dell’irrazionalità. L’autore che ricordiamo, infatti, si pone a testimone della trascendenza, da intendersi non come mera prospettiva che si limita ad intravedere un “invisibile dietro al visibile”, quanto piuttosto di un principio concreto, che è sì al di là del mondo materiale e della ragione che kantianamente lo sistematizza, ma ne è componente pienamente operante. Non siamo nel campo dell’irrazionale quanto piuttosto dell’extrarazionale.

Descrivere la modernità

La prospettiva di Gómez Dávila, nonostante l’ammirazione per la brutale onestà di Nietzsche, non si qualifica come nichilistica, non è una Weltanschauung stirnerianamente costruita sul nulla, non si pone come un costruttivismo estetico di matrice romantica a cui è stato dato lo scopo di fornire un senso ad un mondo che non ce l’ha. In quanto pensatore religioso Gómez Dávila non può accettare le conclusioni di Nietzsche né le premesse immanentistiche dello spinozismo che ne gettarono le basi, poiché se ciò fosse vero ci troveremmo di fronte ad uno dei numerosi autori e filosofi del Novecento finiti per confluire, pur per le più diverse contorsioni, a stimare o a guardare comunque con un’iniziale speranza, i vari fascismi. Non è questo, invece, il caso dell’aforista sudamericano.

Se ciò fosse vero allora Gómez Dávila potrebbe ben meritare l’appellativo di filosofo, amante dell’erudizione pur che sia, del ragionamento volto a disvelare una verità (quand’anche tragica) occultata, il ragionatore amante del ticchettio degli ingranaggi della sua stessa mente. Invece Gómez Dávila, pessimista contemplatore del decadere dell’uomo e del creato, assomigliò più ad un botanico e ad un naturalista. Mancava, a Gómez Dávila, l’atteggiamento scientifico del sociologo e dell’antropologo, così come quello interessato e calcolatore del politico, ma egli fu sostanzialmente un grande vedutista del crepuscolo dell’Occidente, un Canaletto della cultura.

La trascendenza come necessità, la diseguaglianza come base

Specializzato in crepuscoli, Gómez Dávila dipinse nei suoi aforismi il lento tramonto e occultamento di quel principio trascendente, Dio, che per millenni era stato architrave e pietra angolare di qualsiasi struttura sociale e modo di vivere organizzato. Fu consonante, in questo, a De Maistre, che inquadrava nella Rivoluzione Francese e nelle sue conseguenze non già il peccato dell’uomo ma la punizione divina, che faceva seguito ad un peccato più vecchio, quello ben più grave, perché afferente alla sfera dell’anima, dell’illuminismo dei philosophes.

Il pensiero di Gómez Dávila, come quello del brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira, non ebbe paura di manifestarsi come controrivoluzionario in un continente, l’America Meridionale, ed in un periodo storico, la seconda metà del Secolo Breve, dove rivoluzioni e colpi di Stato, anche nel suo paese, la Colombia, furono all’ordine del giorno. Fedele all’idea, e ancor più alla necessità, di possedere un’aristocrazia, ritornò più volte sulle conseguenze nefaste di averne perduto non tanto gli esponenti storici (poiché mai il nostro sconfinò nel nostalgismo legittimista) quanto piuttosto la sensibilità intuitiva della necessità impellente di possederne una. Necessità che, in Gómez Dávila, si qualifica come naturale tanto quanto in Rousseau si qualifica come naturale la totale assenza di essa. La consonanza con Nietzsche, qui, è evidente, ma la matrice aristocratica del pensiero di Gómez Dávila possiede un afflato mistico e teleologico, non è, quindi, un concetto meramente soggiacente alle logiche della volontà di potenza: nel pensiero daviliano l’aristocrazia, e dunque la diseguaglianza, è una datità spirituale, non il prodotto di una gelida meccanica del conflitto inchiavardata nella prospettiva angosciante dell’eterno ritorno.

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È questo il motivo essenziale per cui Gómez Dávila non può e non deve essere accusato di fascismo, e benché l’idea di aristocrazia spirituale, tipico topos daviliano, si discosti poco dal razzismo spirituale di matrice evoliana, è evidente che la forza bruta, basamento e prassi che riallaccia i fascismi alle loro inconfessabili origini illuministiche, non ha alcun ruolo nel pensiero dell’aforista latino-americano. Se il fascismo è una filosofia del potere quella di Gómez Dávila è una mistica dell’autorità, ovvero il principio del potere legittimato ex ante dal consenso della divinità, che non permette sbandate costruttivistiche verso un improbabile “uomo nuovo”, quest’ultimo vero marchio di fabbrica dei sottoprodotti ideologici dell’illuminismo.

Siamo lontani, anche se dal medesimo lato della barricata, dal prudente atteggiamento di Burke e del conservatorismo anglosassone, e più vicini invece al crepuscolare pessimismo di un De Maistre e di un Chateaubriand, ma proprio perché volutamente inattuale il pensiero di Gómez Dávila non è mai datato, quanto piuttosto senza tempo. Poiché Gómez Dávila si riallaccia continuamente ad una dimensione atemporale anche il suo pensiero non ha una data di scadenza. Un politico non potrà mai applicare le idee di Dávila su di una realtà che, per definizione e specialmente in un regime democratico, è transeunte e mutevole, ma non è detto che ciò valga anche per colui che si incarichi di suggestionare quel medesimo uomo politico.

Marco Malaguti

Ricercatore del Centro Studi Machiavelli. Studioso di filosofia, si occupa da anni del tema della rivalutazione del nichilismo e della grande filosofia romantica tedesca.