L’Italia è tra i Paesi europei che hanno scelto di non siglare la “Dichiarazione per il continuo avanzamento dei diritti umani delle persone LGBTIQ in Europa“. Per la precisione, sono 18 su 27 gli Stati membri dell’UE che hanno sottoscritto la dichiarazione.
Il rifiuto dell’Italia ha subito suscitato le rimostranze da parte dell’attivismo gender. Ad esempio il deputato del PD Alessandro Zan ha accusato il Governo di “voler continuare a violare i diritti umani fondamentali”.
Di cosa tratta questa dichiarazione e perché l’Italia non l’ha firmata?
Cosa sono le dichiarazioni
Le “dichiarazioni” non vanno confuse coi trattati, ossia accordi formali e vincolanti tra Stati. Le dichiarazioni sono documenti scritti e non vincolanti. Il fatto che non pongano degli obblighi, tuttavia, non deve farne sottostimare la portata.
Le dichiarazioni, oltre a rappresentare spesso degli impegni morali da parte dei dichiaranti, servono anche a stabilire i princìpi internazionali. Questo tipo di documenti va a comporre la cosiddetta soft law, che non avrà effetti diretti, ma è utilizzata in sede giurisdizionale per decidere come interpretare le norme vere e proprie. Inoltre, la soft law molto spesso riesce a tramutarsi in hard law, ad esempio quando le dichiarazioni divengono la base per successivi trattati.
Per fare un esempio concreto: rientrava nella tipologia della soft law quanto asserito nel Global Compact on Migration, che giustamente (grazie anche all’impegno del nostro Centro Studi) nel 2018 l’Italia si rifiutò di siglare. Non conteneva impegni vincolanti, ma prevedibilmente sarebbe stato usato nei tribunali nazionali e internazionali per neutralizzare qualsiasi politica restrittiva dell’immigrazione.
Le conferenze
Di norma queste dichiarazioni sono emanate a suggello di una conferenza internazionale. È il caso anche della Dichiarazione sui diritti LGBTIQ, che conclude i lavori della “conferenza di alto livello” dal titolo Pride Alliances and Policy: Towards a Union of Equality, promossa dalla presidenza di turno dell’Unione Europea, che spetta al Belgio. Si tratta di un evento cui hanno preso parte non solo i rappresentanti dei governi nazionali, ma anche varie ONG. Tanta è la trasparenza che circonda l’evento, da non riuscire a reperirsi un elenco completo dei partecipanti. È tuttavia facile indovinare l’orientamento di personalità e sigle coinvolte.
Le “conferenze di alto livello”, secondo la definizione dell’ONU (da cui l’UE ha ripreso la pratica), sono “dialoghi e discussioni sui più rilevanti argomenti d’importanza globale con la partecipazione di alti dirigenti delle Nazioni Unite, funzionari governativi, capifila scientifici, degli affari, della società civile ecc.”.
L’ONU ha cominciato a fare un massiccio ricorso a questo tipo di eventi a partire dagli anni ’90. La logica, come spiegato dall’autore ungherese Gergely Szilvay nel suo libro A Critique of Gender Theory, è quella di togliere spazio ai rappresentanti eletti, quelli governativi, per conferire un ruolo maggiore alla “società civile”, ossia a organizzazioni che non sono espressione democratica della scelta popolare.
Cosa dice la Dichiarazione
Quali sono dunque i punti problematici della Dichiarazione, che possono avere spinto il Governo Meloni a non sottoscriverla? Essenzialmente, ve ne sono di due ordini. Il primo riguarda quelle affermazioni che, prese alla lettera, sono condivisibili o innocue, ma che potenzialmente (come spesso è accaduto nella storia della soft law internazionale) possono essere manipolate assegnando dei significati arbitrari a specifiche espressioni o parole.
Ad esempio, la Dichiarazione parla di “prevenire e combattere la discriminazione, specificamente sulla base dell’identità di genere, dell’espressione di genere”: la frase, apparentemente innocua, si presta a promuovere tutta una congerie di pratiche, dalle terapie ormonali e chirurgiche per la “riassegnazione di genere” nei minori, alle carriere alias, all’uso obbligatorio di pronomi arbitrari, fino al matrimonio e alle adozioni per coppie dello stesso testo. Dove si ferma, infatti, la nozione di “non discriminazione”, ossia di non distinguere e non differenziare? “Assicurare la piena non discriminazione in tutte le aree della vita”: così si rincara la dose poche righe dopo.
Queste criticità derivano dunque dall’eccessiva genericità di termini come “discriminazione”, o dall’adozione di terminologia che è invece molto connotata ideologicamente. Quando si parla di “identità di genere”, il rimando è alla teoria costruttivista del genere. Ancora più palese è il gergo partigiano della Dichiarazione laddove afferma che si deve “applicare l’intersezionalità come un principio orizzontale”: “intersezionalità” è un’espressione coniata all’interno del neo-marxismo, che non ha alcun possibile significato al di fuori della visione del mondo che esso esprime.
Altre disposizioni della Dichiarazione sono di natura pratica, diretta, e certo in disaccordo col programma del nostro Governo. Troviamo il “contrasto alla diffusione della disinformazione”, che ormai abbiamo imparato essere un eufemismo per la censura delle opinioni giudicate eterodosse. A scanso di equivoci, si precisa che bisogna “ulteriormente rafforzare la Protezione delle persone LGBTIQ, sia online sia offline, da qualsiasi forma di odio, discriminazione e violenza escludente” (affermare che un uomo che si auto-definisce donna non possa usare gli spogliatoi femminili non sarebbe “escludente”?) e “combattere la crescita e influenza dei movimenti anti LGBTIQ” (non essendovi in Europa nessuno che propugni la criminalizzazione dell’omosessualità, sembra lecito supporre che il bersaglio sia la società civile che non accetta l’ideologia gender).
“Assicurare ulteriormente l’accesso egualitario ai servizi sanitari per le persone LGBTIQ, tenendo in considerazione i loro specifici bisogni” non allude certo alle normali cure, che nessuno nega a chicchessia, ma alla possibilità di accedere senza limitazioni (nemmeno di età?) e gratuitamente (dunque a spese della collettività) a terapie ormonali e operazioni chirurgiche per il cambio di sesso.
“Continuare a proteggere e supportare le organizzazioni della società civile e i difensori dei diritti umani fautori dei diritti delle persone LGBTIQ” parrebbe invitare a destinare loro fondi pubblici, come già del resto avviene in maniera molto generosa (una grossa porzione dei finanziamenti di ILGA Europe, principale organizzazione pro-gender del continente, viene dalla Commissione Europea).
“Continuare a lavorare per assicurare la piena libertà di movimento di tutte le persone LGBTIQ e delle loro famiglie” ha il significato di costringere anche quegli Stati membri in cui non esiste il matrimonio omosessuale a riconoscerlo per quelle coppie provenienti da Paesi in cui esso sia legale.
“Proibire le pratiche di conversione” fa pensare a chissà quali forme d’esorcismo, ma più realisticamente serve a impedire che un medico, posto di fronte a un bambino che dice di sentirsi dell’altro sesso, possa offrirgli un’assistenza psicologico anziché assecondarne le problematiche con inibitori della pubertà e amputazioni chirurgiche.
Conclusioni
A dispetto del nome e del modo in cui è presentata dai suoi apologeti, la Dichiarazioni per i diritti umani delle persone LGBTIQ non intende garantire alcune diritto umano violato. Al contrario, serve ad attaccare altri diritti umani:
- il diritto umano alla libertà di pensiero ed espressione, anche se in disaccordo coi dogmi dell’ideologia gender;
- il diritto umano di bambini e adolescenti ad essere aiutati, secondo le migliori pratiche mediche disponibili, in base a scienza e coscienza del medico, anziché essere obbligatoriamente indirizzati verso traumatici percorsi di “riassegnazione di genere”;
- il diritto umano dei cittadini a essere la fonte della legislazione, anziché dover subire norme calate dall’alto di “conferenze d’alto livello”.
Fondatore e Presidente del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Scienze storiche (Università degli Studi di Milano) e Dottore di ricerca in Studi politici (Università Sapienza), è docente di "Storia e dottrina del jihadismo" presso l'Università Marconi e di "Geopolitica del Medio Oriente" presso l'Università Cusano, dove in passato ha insegnato anche in merito all'estremismo islamico.
Dal 2018 al 2019 è stato Consigliere speciale su immigrazione e terrorismo del Sottosegretario agli Affari Esteri Guglielmo Picchi; successivamente ha svolto il ruolo di capo della segreteria tecnica del Presidente della Delegazione parlamentare presso l'InCE (Iniziativa Centro-Europea).
Autore di vari libri, tra cui Immigrazione: le ragioni dei populisti, che è stato tradotto anche in ungherese.
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