di Elisa Boscarol

Sono in molti a dire che quello della “medicina transgender” è uno dei più grandi scandali medici della nostra epoca. Stiamo parlando di trattamenti, oggi chiamati gender affirming care (cura per l’affermazione di genere), che prevedono l’alterazione ormonale e chirurgica del corpo per adeguarlo all’auto-percezione della mente.

Nella narrazione dominante, farmaci bloccanti della pubertà, ormoni del sesso opposto e chirurgie demolitive e/o ricostruttive vengono considerati terapie salvavita per le persone che soffrono di disforia di genere, le quali in assenza di questi trattamenti si suiciderebbero.

Emblematica è la recente ispezione ministeriale nei confronti dell’Ospedale Careggi di Firenze, in cui da anni ai minori disforici viene somministrata la triptorelina, farmaco bloccante della pubertà. È infatti dal 2019 che l’AIFA ha autorizzato – a carico del servizio sanitario nazionale – l’uso off label della triptorelina per bambini e adolescenti che si dichiarano transgender. I criteri, secondo l’AIFA, dovrebbero essere però stringenti: sarebbe necessaria una diagnosi di disforia di genere secondo il DSM-5, diagnosi che dovrebbe essere confermata da una “equipe multidisciplinare e specialistica, composta da specialista in neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, endocrinologia pediatrica, psicologia dell’età evolutiva e bioetica”.

Al Careggi però questo non avviene: le stesse dottoresse del reparto, l’endocrinologa Alessandra Fisher e la psicologa psicoterapeuta Jiska Ristori, dichiarano di non praticare nemmeno la psicoterapia prima di somministrare i bloccanti ai piccoli pazienti. La motivazione è molto chiara, ed esce direttamente dalla bocca della dottoressa Ristori: “Esattamente come succede nelle persone cisgender alle quali non viene richiesta una psicoterapia per definire la propria identità di genere, questo vale anche per le persone trans”.

Non c’è nulla di cui stupirsi di fronte a simili dichiarazioni, peraltro condivise anche dalla Società Italiana di Pediatria, secondo cui ogni forma di psicoterapia volta a indagare sulle cause della disforia dichiarata è da considerarsi un intervento di “gatekeeping” che nega alle persone transgender il loro diritto all’autodeterminazione, e dunque “a tutti gli effetti una forma di transfobia”.

È importante a questo punto capire che le dottoresse del Careggi e la Società Italiana di Pediatria non fanno altro che seguire quelle che sono le linee guida internazionali per la cura delle persone che si dichiarano transgender. Tali linee guida, condivise dall’OMS e da pressoché tutte le associazioni mediche internazionali (l’American Psychological Association in prima linea) prevedono l’adozione dell’approccio affermativo, che in sostanza consiste nella validazione incondizionata dell’identità dichiarata dall’individuo, il quale, a prescindere dall’età, di conseguenza va semplicemente accompagnato e assecondato in ogni sua richiesta di modifica del corpo. Queste linee guida sono stabilite dalla massima autorità mondiale per la salute transgender, la World Professional Association for Transgender Health (WPATH).

I WPATH Files

Anche se nel nostro Paese la faccenda è stata pressoché ignorata dai media mainstream, di recente la WPATH è stata al centro di un enorme scandalo, esploso dopo la pubblicazione delle conversazioni tra i membri dell’associazione. Stiamo parlando di comunicazioni interne, registrazioni di riunioni su Zoom, chat e altre conversazioni tra medici, psicoterapeuti, chirurghi e attivisti WPATH, rese pubbliche grazie al giornalista Michael Shellenberger, fondatore e presidente dell’organizzazione nonprofit Environmental Progress.

I documenti, curati e analizzati dalla ricercatrice Mia Hughes, sono stati pubblicati sotto il nome di “WPATH files. Esperimenti ormonali e chirurgici pseudoscientifici su bambini, adolescenti e adulti vulnerabili”. La cosiddetta gender medicine consiste infatti proprio in questo: nient’altro che trattamenti sperimentali, demolitivi, invasivi e privi di etica, eseguiti sugli individui più vulnerabili: minorenni e persone con gravi disturbi mentali. E questo i medici WPATH lo sanno perfettamente.

LEGGI ANCHE
Londra: l'Alta Corte frena sul cambio di sesso per i bambini
La chimera del consenso informato: rischi, complicazioni e sterilità

Come il Centro Studi Machiavelli ha già evidenziato in questo articolo sullo scandalo WPATH, i membri dell’associazione agiscono in piena coscienza dei rischi, degli effetti collaterali e delle complicazioni dei trattamenti ormonali e chirurgici che somministrano, complicazioni che vanno da disfunzioni gravi del pavimento pelvico allo sviluppo di forme gravi di cancro al fegato. Nei file non si fa mistero nemmeno dei rischi aumentati di infarto e trombosi, nonché delle orrende complicazioni causate dagli interventi chirurgici genitali, come la falloplastica (con cui si crea un finto pene asportando il tessuto dell’avanbraccio o della coscia) e la vaginoplastica (con cui si crea una finta vagina ripiegando il pene verso l’interno per ricavare una cavità che andrà dilatata a vita).

 

Anche la perdita della fertilità, soprattutto per i pazienti che hanno assunto bloccanti della pubertà, è ben nota agli esperti della “gender medicine”, che a tal proposito riconoscono che a queste condizioni un vero consenso informato non è possibile, né da parte dei ragazzini né tantomeno dai loro genitori. Lo sostiene, nei documenti trapelati, la psicologa Dianne Berg, che ammette che i genitori firmano il consenso per trattamenti di cui non comprendono minimamente l’entità. Anche Jamison Green, ex presidente WPATH e transattivista FTM, ammette che i pazienti spesso firmano i moduli per il consenso senza leggerli, e lo stesso accade con i dettagli delle chirurgie a cui si sottopongono.

L’endocrinologo Daniel Metzger conferma l’ignoranza abissale dei suoi pazienti in materia di biologia e soprattutto di preservazione della fertilità: quando confrontati con il problema della possibile perdita della fertilità, bambini e ragazzi sminuiscono la questione affermando in maniera sbrigativa di non volere figli o che in caso adotteranno, come se un figlio si potesse ottenere con uno schiocco di dita. Metzger parla anche di quei giovani pazienti che rimpiangono la perdita della fertilità, aggiungendo “non credo che questo ci sorprenda”. A tal proposito cita uno studio olandese i cui risultati sono stati presentati in fase preliminare al simposio internazionale WPATH tenutosi a Montreal nel 2022. Da questo studio, il primo condotto a lungo termine su giovani sottoposti a soppressione della pubertà, emerge che il 27% di questi giovani, ora sulla trentina, rimpiange aver sacrificato la propria fertilità, percentuale che secondo chi lavora nel campo sembrerebbe essere una sottostima. [1 – continua]

Elisa Boscarol è divulgatrice, studiosa del fenomeno "gender" e fondatrice del canale Il Mondo Nuovo 2.0.