di Claudia Ruvinetti

L’intersezionalità è un concetto sociologico che si è diffuso capillarmente negli ultimi dieci anni grazie alle piattaforme social, alle università e al dibattito politico: esso quindi si è liberato dalla nicchia accademica statunitense in cui è nato per approdare ai linguaggi mainstream.

Nascita e sviluppo di un concetto

Il termine “intersezionale” è nato in seno al femminismo di terza ondata, promosso dalla giurista e attivista afroamericana Kimberlé Crenshaw, la quale lo coniò utilizzando la metafora geometrica dell’incrocio fra due rette; l’intersezionalità dovrebbe considerare pertanto le appartenenze socio-economiche (genere, razza e status) come multiple, analizzabili solo come una sovrapposizione delle stesse e non singolarmente.

Secondo chi pratica il femminismo intersezionale, le discriminazioni non viaggiano su strade parallele o, comunque, destinate a non incontrarsi mai. È il contrario. Le discriminazioni si intersecano in un crocevia che rimanda l’interdipendenza di tutte le ingiustizie, le quali impattano a molteplici livelli una sull’altra e spesso simultaneamente. Per fare un esempio una donna nera, al di là della sua situazione personale e sociale, vivrebbe automaticamente la doppia discriminazione facendo parte di due categorie “svantaggiate” (genere femminile ed etnia afroamericana), le quali non sono pensabili psicologicamente e socialmente come indipendenti ma acquistano significato simultaneamente.

Da questo principio si ha la metafora dell’incrocio stradale della Crenshaw che afferma:

“… un’analogia con il traffico di un incrocio, che viene e va in tutte e quattro le direzioni. Così, la discriminazione può scorrere nell’una e nell’altra direzione. E se un incidente accade in corrispondenza di un incrocio, può essere stato causato dalle macchine che viaggiavano in una qualsiasi delle direzioni e, qualche volta, da tutte”.

La conseguenza ulteriore di questo approccio è che la donna dell’esempio precedente, in quest’ottica, verrebbe automaticamente considerata svantaggiata sia rispetto al coetaneo nero uomo sia rispetto alla sua coetanea bianca, con i quali condivide solo un aspetto in comune e non entrambi. Secondo la teoria intersezionale quindi la storia dell’individuo e della comunità di appartenenza non sarebbero informativi in potenza, non importa se l’uomo bianco soffra di una patologia mentale o fisica, non importa nemmeno se la donna bianca sia sottopagata, le appartenenze ascritte rispondono ad un meccanismo ferreo che divide il mondo molteplici categorie di dominanti e dominati.

Il legame con la lotta di classe

Recentemente su è stato pubblicato un articolo del presidente del Centro Studi Machiavelli dal titolo Arcobaleno rosso. La teoria gender come parte del neo-marxismo, tale pezzo ha suscitato, come era prevedibile, numerose polemiche. Mi ricollego allo scritto in questione per tessere un ulteriore filo all’analisi. L’intersezionalità nasce proprio in seno al femminismo e non altrove, tanto che questo viene ora definito “femminismo intersezionale”. Se è vero che non tutte le femministe sono intersezionali o marxiste (pensiamo alle TERF che si oppongono alla narrazione del trans come donna), la maggior parte del neo femminismo ha abbracciato totalmente la prospettiva di genere tanto che le voci critiche “da dentro” sono poche e quasi sempre tacciate con le peggiori accuse di alto tradimento.

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Il femminismo intersezionale nasce in un momento di grande crisi politica e ideale del marxismo, l’anno in cui uscì il libro della Crenshaw fu, ironia della sorte, proprio il 1989, spartiacque tra il vecchio mondo e la società del benessere borghese e del riflusso. È lecito pensare che il neo femminismo, nella sua narrazione di un gruppo compatto di dominanti e dominati, abbia sostituito le classi sociali a quelle di genere, instillando uno scontro tra i sessi che non mira a nessuna armonizzazione ma addirittura alla segregazione sempre più netta tra gruppi. In questi ultimi anni l’intersezionalità è andata oltre, ha tagliato come una cesoia le identità, gli individui, cercando di costruire un mondo di etichette e di appartenenze sempre più stringenti e avulse dalla realtà. Questo non aiuta lo sviluppo della persona umana. Inoltre secondo lo stereotipo creato dall’ideologia intersezionalista il rappresentante di una minoranza, un omosessuale, una donna o un italiano di origini straniere, dovrebbero per automatismo votare partiti di sinistra progressista, al di là dello sviluppo della loro personale coscienza critica e dei loro interessi concreti.

La lotta è reale solo se NON è intersezionale

L’8 e il 9 giugno si terranno le elezioni europee e questi temi, lungi dall’essere confinati nelle aule di una facoltà universitaria californiana, sono sempre più vicini e attuali. Per usare una metafora il femminismo intersezionale si è comportato come l’Unione Europea: ha unito realtà molto diverse fra loro, è nato per difendere gli interessi di pochi (lobby e gruppi di potere accademico) e infine quando è stato possibile contestarlo, ha ricevuto diverse critiche.

Vogliamo chiudere con un appello al voto ma soprattutto alla riflessione: come la triplice sindacale non ha sempre difeso i lavoratori più deboli, il movimento lgbt e quello femminista non possono essere rappresentativi di tutte le persone di sesso femminile e omosessuali. Ciascun cittadino deve essere libero di votare al di là delle strette maglie dei gruppi di interesse, conformemente ai propri interessi e soprattutto alla propria intimità valoriale. La lotta è reale solo se NON è intersezionale.

claudia ruvinetti

Laureata in Psicologia, militante politica, coltiva parallelamente la passione per i temi della comunicazione politica, del rapporto fra i sessi e della storia militare.