di Marco Malaguti

Che l’inclusione forzosa a tutti i costi avesse un impatto sulla meritocrazia e, di conseguenza, sulla capacità degli enti a cui è applicata di rimanere performanti è sempre stato un timore dei conservatori. Ne sappiamo qualcosa in Italia dove al voto per il rinnovo del Parlamento Europeo siamo stati costretti per esprimere più di una preferenza a inserire almeno un candidato di sesso diverso, quand’anche, magari, ne avremmo ritenuto migliore uno del medesimo.

Una moda a stelle e strisce

Il sistema delle “quote”, va detto, non è certo un’innovazione made in Italy, e come tante discutibili trovate della nuova morale suppostamente inclusiva proviene da oltreoceano. Negli Stati Uniti, come sa chiunque abbia le più rudimentali basi sulla politica e la vita quotidiana di quel paese, il sistema delle “quote” è ormai collaudato da decenni, e non solo per quanto riguarda i sessi ma anche per ciò che riguarda le disabilità, gli orientamenti sessuali e le numerose “minoranze” etniche, in particolare gli afroamericani, che popolano gli States. Il sistema, denominato anche affirmative action (o positive discrimination, dicitura più comune per il Regno Unito), benché contestato, è diventato ormai consuetudine, arrivando a rafforzarsi ulteriormente grazie anche alla nuova prospettiva intersezionale.

Una crociata contro l’esclusione

Poiché la strada per l’inferno è sempre lastricata di ottime intenzioni, anche le motivazioni che hanno portato alla nascita dell’affirmative action sono, almeno a parole, nobili, e ve ne sono principalmente due: la prima di ordine politico, ossia far uscire categorie presuntamente discriminate dall’emarginazione sociale, e la seconda di ordine morale, cercando cioè di risarcire non soltanto simbolicamente le vittime di discriminazioni subite nel passato. Tralasciando l’interrogativo su come sia possibile, nel 2024, risarcire le vittime della schiavitù (negli USA abolita nel 1863), viene da chiedersi quale sia il reale impatto di queste misure. In poche parole, le politiche di affirmative action sono riuscite, nel corso dei decenni, ad uscire dal risultato meramente simbolico e ideologico di porgere le scuse alle categorie discriminate nel passato? Le discriminazioni sono effettivamente cessate? E ancora, quale impatto hanno avuto queste politiche per quanto riguarda la produttività economica, la rendita scolastica e il buon funzionamento del sistema politico-amministrativo?

Tanto fumo e niente arrosto

Ad occhio e croce i risultati non sembrano esaltanti: mai come oggi i media statunitensi parlano (a ragione? A torto?) di una continua recrudescenza di razzismo, sessismo e bigotry, ovvero proprio quelle piaghe contro le quali l’affirmative action era stata concepita, mentre il sistema politico sembra sempre più soffrire, come del resto qualsiasi altra società evoluta e “complessa” di stampo occidentale, di sempre maggiore farraginosità, proliferazione burocratica e invasività nella vita privata. E nell’istruzione?

La vittima designata: il merito

Come è ovvio, il pensionamento parziale della meritocrazia nella scuola, nella quale l’etica anglosassone da sempre ripone, giustamente, un punto di forza ed un motivo di vanto, non può non avere ricadute pesanti anche nel mondo del lavoro e, più in generale, nell’intero sistema economico della comunità. Il fatto assume connotati particolarmente gravi qualora tali ricadute avvengano in ambiti considerati sensibili, quali ad esempio quello della sicurezza nazionale o quello della sanità. Nonostante quest’ultima sia, in un paese come gli Stati Uniti, quasi interamente privata, il supposto background economicistico della nazione simbolo del liberismo economico non sembra aver offerto adeguato riparo contro i disastri di un provvedimento di matrice squisitamente ideologica come l’affirmative action.

Il caso dell’UCLA

È di non molto tempo fa, infatti, la notizia che riporta, dati alla mano, un sensibile calo di prestazioni tra coloro che cercano di accedere ad una delle scuole di medicina più prestigiose del pianeta, la californiana David Geffen School of Medicine dell’Università di Los Angeles (UCLA). La forzosa inclusione di membri di minoranze etniche, in particolare quella degli afroamericani, anche quando non in possesso delle nozioni normalmente richieste agli altri studenti, all’interno delle scuole, infatti, tende ad abbassare considerevolmente il rendimento negli studi nel suo complesso. La UCLA, che riceve ogni anno oltre quattordicimila domande di ammissione, nel 2023 ha potuto ammettere soltanto 173 candidati a causa della mancanza dei requisiti di base.

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Una legge non scritta

Le prestazioni dei candidati nei test di ammissione, ovviamente, sono valutate individualmente, e questo può facilmente portare a contestazioni. Cosa fare in caso di candidati che esprimano prestazioni insufficienti ma che, al contempo, sono beneficiari di affirmative action? Casi di questo tipo si sono verificati di recente proprio alla UCLA, portando a scontri all’interno del corpo docenti tra una fazione “meritocratica” e una, comprendente anche la preside della commissione valutante Jennifer Lucero, favorevole ad un’inclusione a tutti i costi. Se tutto ciò può apparire, al lettore europeo continentale, come sconcertante, ancora più surreale esso appare alla luce del fatto che, nello Stato della California, l’affirmative action è stata dichiarata, dopo una discreta applicazione, illegale nel 1996. La vicenda, in buona sostanza, sembra invece dimostrare come essa sia stata talmente introiettata a livello culturale, nelle autorità accademiche ma probabilmente anche nella popolazione californiana, da essere diventata una sorta di legge non scritta, applicata in barba alle normative vigenti.

Qualità in caduta libera

Proprio questa legge non scritta avrebbe causato, con l’andare del tempo, una sensibile diminuzione della qualità di professionisti diplomatisi dalla UCLA e immessi nelle corsie degli ospedali di tutto il Paese. Professionisti che, durante i loro studi, spesso devono perdere molto tempo per reimpadronirsi (impadronirsi?) di nozioni anche basilari, come ha confessato una fonte anonima della scuola al Washington Free Beacon. L’impatto è stato notevole: la scuola, da quando la Lucero è entrata nella commissione, ha perso dodici posizione nel ranking della ricerca medica stilata dal US News & World Report, ma è anche aumentato il numero di studenti che sono stati respinti a più di tre esami (il 23,8%) e quelli che hanno abbandonato gli studi, sottraendo così posti a chi, magari, si è trovato escluso nel nome dell’inclusione.
Il caso dell’UCLA è una piccola goccia nell’oceano del sistema sanitario americano e, più in generale, nel comparto dell’istruzione occidentale che, lo ricordiamo, assumerà sempre più una valenza geostrategica prioritaria nel quadro di rinnovata competizione tra potenze, Russia e Cina in primis, paesi nei quali l’affirmative action non esiste ed i parametri di valutazione sono ferrei, al netto della corruzione. Nelle proporzioni e nelle ricadute che stanno sperimentando gli Stati Uniti, va detto, l’affirmative action non è mai arrivata nei paesi dell’Unione Europea, ma per una volta sarebbe bello, nonché doveroso, che il legislatore prevenisse anziché curare.

Marco Malaguti
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Ricercatore del Centro Studi Machiavelli. Studioso di filosofia, si occupa da anni del tema della rivalutazione del nichilismo e della grande filosofia romantica tedesca.