di Gianmaria Pisanelli

 “La salute era la premessa per essere liberi e indipendenti, invece ora comporta una rete di prevenzioni e precauzioni, protezioni e lasciapassare che riducono la libertà e l’indipendenza… Una cappa sanitaria è sospesa sulle teste come una spada di Damocle, avvolge la società e riduce i cittadini al rango di pazienti e lungodegenti in libera uscita. Tracciati e sempre reperibili in caso di richiamo”.

Marcello Veneziani, “La Cappa”, Marsilio 2022

 

Verso un’assistenza sanitaria subordinata agli stili di vita?

Nel febbraio scorso l’assessore al Welfare della regione Lombardia, Bertolaso, ha proposto di istituire una tessera sanitaria a punti, finalizzata a creare un sistema di incentivi e forme di premialità per coloro che rispettino le prescrizioni circa i corretti stili di vita. Al momento, non risulta che l’iniziativa abbia avuto un seguito concreto, ma è molto probabile, come già avvenuto in altre occasioni, che prima o poi essa venga implementata, magari con qualche opportuno adeguamento per renderla più appetibile.

Si tratta, in ultima analisi, di un altro fra i tanti pessimi regali della Agenda 2030, che, spesso restando sottotraccia, sta trovando progressiva applicazione in tutti i paesi occidentali, con il suo carico di retorica ambientalista e politicamente corretta, e con le sue onnipresenti e stucchevoli parole d’ordine, come resilienza, sostenibilità, inclusione.

L’ossessione per i comportamenti dei cittadini ha trovato terreno fertile nel periodo pandemico, quando per mesi siamo stati bersagliati dai pressanti consigli e dalle immancabili prescrizioni di medici ed esperti di varia natura, che hanno invaso gli studi televisivi per istruirci sui presunti benefici del distanziamento sociale, delle mascherine e del lockdown.

Un periodo che ha anche riacceso l’attenzione sul tema dei costi dell’assistenza sanitaria pubblica. La necessità di fronteggiare le fasi più critiche della pandemia ha mobilitato la gran parte delle risorse umane e finanziarie nonché le strutture ospedaliere, producendo pesanti conseguenze negative su cure ed esami clinici relativi a tutele altre malattie, anche le più gravi. Terminata la fase emergenziale, si è dunque aperto un dibattito sulla sostenibilità finanziaria del modello di assistenza sanitaria pubblica del nostro paese, quale disegnato dalla nostra costituzione. Da più parti si è evidenziata la necessità di ridurre la spesa pubblica in questo settore, limitandola all’assistenza da fornire ai soggetti più fragili (anziani, cittadini con bassi livelli di reddito), o comunque selezionando in modo rigoroso le prestazioni sanitarie da lasciare a carico del bilancio dello Stato. È stata anche rilanciata l’opportunità di sostenere e promuovere il ricorso dei cittadini a forme di assicurazione sanitaria privata, sull’esempio di quanto avviene in molti paesi occidentali.

La dittatura mediatica degli “esperti”

Ma, soprattutto, è emerso con sempre maggiore forza il tema della responsabilità dei cittadini in relazione al proprio stato di salute. In sostanza, molti esperti, o presunti tali, e anche qualche esponente politico in cerca di visibilità, sostengono che per limitare l’impatto delle spese sanitarie sul bilancio pubblico si dovrebbe indurre le persone ad assumere stili di vita volti a tutelare la salute e a prevenire per quanto possibile l’insorgere delle malattie. Di qui la proposta di una forte opera di sensibilizzazione circa i rischi connessi all’alimentazione squilibrata, al consumo di alcol, al fumo, alla sedentarietà ecc. Un orientamento che si collega direttamente alle iniziative intraprese dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), che proprio su questi temi ha elaborato una pericolosa proposta di riforma del Trattato pandemico internazionale, bloccata nelle settimane scorse anche grazie alla posizione contraria espressa dal governo italiano (cui ha notevolmente contribuito la meritoria opera di sensibilizzazione politica svolta da alcuni parlamentari quali Claudio Borghi della Lega e Lucio Malan di FdI).

L’idea di monitorare le abitudini dei cittadini, e di introdurre sistemi premiali/punitivi correlati all’assistenza sanitaria, non solo è del tutto contraria ai nostri principi costituzionali, ma sembra ispirarsi ad assiomi tipici degli Stati totalitari. Non a caso è nella Cina del partito unico che si è affermato negli anni scorsi il modello della c.d. “patente sociale”, che si basa su forme di controllo pervasive dei comportamenti dei cittadini anche nella loro sfera privata, con indebite e gravi restrizioni della loro libertà personale.

Si potrebbero ricondurre queste pericolose derive illiberali al concetto dello Stato etico che da Hobbes a Hegel ha solcato il pensiero filosofico dell’800 e che ha contribuito sul piano della teoria politica alla nascita di alcuni tra i peggiori regimi totalitari della storia. Ma un simile collegamento sembra francamente forzato, la complessità di quel pensiero e di quei sistemi politici e il loro tragico impatto sulla storia del XX secolo, ben poco hanno infatti a che vedere con il fenomeno che abbiamo di fronte. In realtà, le vere origini di questa nuova metodologia di governo, basata sul controllo e sulla prescrizione pedagogica, vanno individuate nel nuovo ruolo che la classe politica è stata indotta ad assumere in tutto l’Occidente. Colpito dalla pesante opera di delegittimazione che ha caratterizzato gli anni successivi alla caduta del Muro di Berlino e cha coinvolto soprattutto il nostro Paese, grazie alle inchieste giudiziarie di Mani Pulite e alle conseguenti campagne mediatiche contro la c.d. “casta”, il ceto politico ha progressivamente perso consenso e reputazione, mentre si vedeva gradualmente sottrarre quote crescenti di potere mediante l’espandersi sempre più accentuato delle competenze degli organi sovranazionali (Ue, ONU, OMS).

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La “rieducazione” dei cittadini come nuova dimensione della politica

Il passaggio da decisori politici a esecutori di strategie quasi sempre elaborate in altre sedi è stato vissuto con favore, e perfino con entusiasmo, dai sostenitori del vincolo esterno, per lo più collocati nel mondo della sinistra progressista, mentre nell’area del Centro destra, più sensibile al tema della sovranità nazionale, si è opposta una qualche forma di resistenza, che tuttavia non ha prodotto risultati concreti.

A marzo del 2020, di fronte al manifestarsi dell’emergenza pandemica, il ministro della Salute ha spiegato, non senza una buona dose di compiacimento, che egli non avrebbe assunto decisioni ma si sarebbe limitato a eseguire le indicazioni del Comitato tecnico scientifico (“Seguiremo la scienza”). Non era proprio così, il governo ha compiuto anzi in quel frangente scelte ben precise, come poi è emerso dai documenti successivamente pubblicati e dai verbali stessi del CTS. E tuttavia la scelta di delegare formalmente decisioni di così grande impatto a un organismo tecnico ha reso chiaro a tutti come l’involuzione della classe politica fosse ormai giunta a maturazione. Una volta scaricata sulla “scienza” la responsabilità di certe scelte, ai politici e agli amministratori locali restava il compito di emanare e far osservare le misure restrittive, spesso al limite del persecutorio, da infliggere al cittadino. E va detto che molti di loro hanno esercitato questi compiti con zelo e tenacia degni di miglior causa, quasi che avessero finalmente trovato la piena realizzazione dei propri sogni più reconditi. Sostenuti da una stampa totalmente asservita al verbo emergenzialista, alcuni presidenti di regione e molti sindaci non si sono tuttavia limitati all’attuazione dei provvedimenti emanati dal governo e alla emanazione di quelli di propria competenza, ma hanno ampiamente travalicato i confini del loro ruolo, trasformandosi in moderni Savonarola, dediti a una diuturna colpevolizzazione dei comportamenti dei cittadini e nella minaccia di sempre più aspre sanzioni. Ispirati a una sorta di moralismo pedagogico-autoritario, e armati di nuovi poteri sanzionatori connessi all’emergenza pandemica, invitati di continuo nei salotti televisivi, essi hanno vissuto un vero e proprio momento di gloria, che faticano molto ad archiviare una volta messa la parola fine all’emergenza.

E i temi dell’Agenda 2030 sembrano in tal senso il terreno perfetto per continuare, con qualche aggiustamento, a indossare i panni dei fustigatori dei costumi altrui. Cambiamenti climatici, carenza di risorse per la sanità, obiettivi di inclusività e anti discriminazione, sono tutte occasioni ideali per implementare proposte che impattano sulla vita dei cittadini, naturalmente in nome del bene comune e della salvezza del pianeta. Ed ecco quindi le distopiche campagne per il “rischio zero” sulle strade, con i demenziali limiti di velocità a 30 km/h, misure di per sé del tutto irrazionali e invise perlomeno all’80% dei cittadini. Ma che diventano tanto più insopportabili in quanto accompagnate dai predicozzi retorici di chi le ha poste in essere, che non manca mai di deplorare lo scarso senso civico degli italiani e la loro tendenza a non rispettare le regole (luoghi comuni, questi ultimi, che hanno trovato una clamorosa smentita proprio nel periodo pandemico).

Proposte come quella dell’assessore Bertolaso, vere e proprie “finestre di Overton” spalancate, in definitiva, vanno contrastate proprio in quanto sintomo di una deriva ideologica di stampo neo-totalitario che, in nome della salvaguardia della salute, della sicurezza, dell’ambiente, punta a rendere permanente il modello emergenziale sperimentato durante la pandemia, con indebite e ingiustificabili restrizioni dei diritti e delle libertà delle persone.

gianmaria pisanelli

Laureato in Giurisprudenza (Università Sapienza), dopo una breve esperienza come funzionario del Ministero del Lavoro è stato consigliere parlamentare alla Camera dei Deputati per oltre trent'anni.