di Umberto Camillo Iacoviello

La denatalità è il più grande problema del nostro tempo. Un popolo che non si rigenera mettendo al mondo figli, invecchia, perde vitalità e nel lungo periodo muore. A partire dagli anni Sessanta del XX secolo, sia per far fronte alla necessità di manodopera essenziale per sostenere la sviluppo economico, sia per tamponare il crescente problema della denatalità, diverse nazioni occidentali hanno scelto di aprire le porte agli immigrati. Il Regno Unito, così come i Paesi Bassi e la Francia hanno accolto immigrati dalle ex colonie, la Germania inizialmente dall’Italia e successivamente soprattutto dalla Turchia, e così via. Se sul piano economico i risultati sono stati positivi, sul piano sociale, l’arrivo di milioni di uomini provenienti da culture profondamente diverse è stato un disastro. In questo articolo non ci occuperemo della convivenza tra europei e immigrati extraeuropei. Ci concentreremo sulla storia demografica d’Italia, per analizzare la profondità della crisi. Per approfondire le cause e le conseguenze della denatalità, dell’immigrazione e dell’incompatibilità tra popoli diversi, rimandiamo al saggio – con i dati più aggiornati – La scomparsa dei popoli europei. Denatalità, immigrazione, declino (Passaggio al Bosco, 2024).

Una società in crisi

Ci limiteremo a elencare sommariamente i fattori principali che hanno alimentato il fenomeno delle culle vuote: l’urbanesimo (tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento assistiamo a una progressiva migrazione interna: gli abitanti delle campagne migrano nei centri urbani più grandi. In città le donne fanno mediamente meno figli rispetto alle donne che vivono in zone rurali); lo sviluppo dello stato sociale sostituisce progressivamente i figli (questi ultimi non sono più la manodopera da impiegare nei campi né il “bastone della vecchiaia” dei genitori); cambia il ruolo della donna nella società (puntando alla parità di genere e all’indipendenza, le donne ambiscono alla carriera, non considerano più necessario mettere su famiglia, non ci sono più le pressioni sociali in tal senso); legalizzazione di anticoncezionali, aborto; uomini e donne raggiungono la stabilità economica sempre più tardi (anche a causa di cicli di studio più lunghi), questo comporta avere figli più tardi, ciò implica inevitabilmente fare meno figli o peggio, non farli; la paura di perdere il lavoro in caso di gravidanza; il costo dei figli o la mancanza di una rete di strutture adatte, spinge molte coppie a non figliare.

Il “tramonto della famiglia” è testimoniato dal crollo dei matrimoni: siamo passati dagli oltre 300 mila nel 1981 ai 184 mila nel 2019; i divorzi sono passati da 17.134 del 1971 a 79.917 nel 2019; le separazioni legali sono passate da 11.796 nel 1971 a 66.662 nel 2019. Nel 2022 i figli nati fuori dal matrimonio costituivano il 41,5% del totale.

Sugli effetti della denatalità e sulle possibili soluzioni al dramma delle culle vuote, vi sono punti di vista differenti: da chi nega che la denatalità sia un problema, a chi crede di risolvere tutto elargendo sussidi. C’è chi afferma – molto superficialmente – che “se ne saremo di meno, qual è il problema? Ci sarà più benessere per i pochi che restano”.

È vero esattamente il contrario. Lo spopolamento non erode uniformemente tutte le fasce di età: la popolazione diminuisce perché i nati vivi sono insufficienti per rimpiazzare le generazioni precedenti, di conseguenza la percentuale di anziani aumenta. Come può esserci benessere se un terzo della popolazione ha più di 65 anni e non lavora? Chi sostiene il benessere se mancano fisicamente i lavoratori? Qualcuno ha la risposta pronta: gli immigrati.

L’invecchiamento: un dato strutturale

Qui, ora, sfateremo dati alla mano la narrazione secondo cui gli immigrati ci pagano (e ci pagheranno) le pensioni; non solo perché tale narrazione non regge sul piano economico, ma anche perché, prendendo per positivo il temporaneo bilancio economico dell’immigrazione, ci sono aspetti “non economici” da considerare: convivenza, sicurezza, sopravvivenza fisica.

LEGGI ANCHE
GIUBILEI: Non saranno gli immigrati a salvarci dal declino demografico

L’invecchiamento della popolazione è un processo con cui ci toccherà obbligatoriamente fare i conti, non solo perché – come scrivono i demografi De Rose e Rosina – è «inedito nella storia dell’umanità. Nelle società pre-industriali solo una limitata minoranza arrivava in età anziana e vi giungeva in condizioni di salute generalmente molto precarie. Inoltre, l’elevata natalità dava peso preponderante alle generazioni più giovani. In particolare, la proporzione delle persone con più di sessant’anni tra gli abitanti del pianeta non è mai stata storicamente superiore a una su venti (in alcuni paesi meno sviluppati si trova ancora sotto tale livello). La percentuale è salita negli ultimi decenni fino a superare uno su dieci nei primi anni del XXI secolo, con previsione di superare uno su cinque entro il 2050 (valore già superato nei paesi più sviluppati)»; ma anche perché è «irreversibile (o inesorabile) perché la crescita del numero della proporzione degli anziani nelle società contemporanee è diretta conseguenza del fatto che le persone vivono progressivamente più a lungo e che fanno meno figli rispetto al passato. A meno quindi di tornare ai livelli di fecondità e mortalità di antico regime, la presenza nella popolazione di un’elevata quota di persone anagraficamente mature va considerata, oltre che una caratteristica del tutto nuova rispetto alla storia dell’umanità, anche destinata a diventare strutturale e a rimanere permanentemente nel futuro».

Ristrutturare la società o rassegnarsi al declino

Dunque, non solo la società deve essere ristrutturata, fatta su misura per sostenere una consistente percentuale di anziani; ma, aspetto più importante, lo Stato deve avere come obiettivo primario l’incremento della natalità degli autoctoni. Le conseguenze dell’invecchiamento della popolazione sono diverse e, se non affrontate con misure radicali, catastrofiche. Nel medio-lungo periodo una popolazione anziana comporta una maggiore pressione sul sistema pensionistico: spesa che nel 2025 assorbirà il 16,2% del Pil italiano a fronte di una diminuzione della forza lavoro: il numero di lavoratori contribuenti diminuirà fino a un rapporto di 1:1 tra popolazione attiva e popolazione inattiva nel 2050; aumento del costo delle spese sanitarie e assistenza che graverà su famiglie poco numerose; una popolazione anziana è vulnerabile, ha più difficoltà ad affrontare le emergenze, non è in grado di difendersi; non può avere ambizioni geopolitiche, è destinata a vivere sotto l’ombrello militare di una grande potenza; aspetto più importante, ha un tempo limitato per invertire la rotta demografica: entro la metà del secolo le donne in età fertile potrebbero essere numericamente insufficienti per garantire un numero annuo di nascite adeguato per garantire la perpetuazione del popolo italiano. Superato quel limite, salvo soluzioni eugeniche che prevedano l’uso della tecnica, potremo solo accettare il declino e rendere meno dolorosa la (nostra) scomparsa fisica.

Con questo articolo vogliamo sottolineare la gravità del declino demografico italiano. Sono anni decisivi per il nostro Paese. L’imperativo è agire in fretta. La procrastinazione ci spinge violentemente verso il baratro. [1 – continua]

Fonti:

De Rose-Rosina, Introduzione alla demografica. Analisi e interpretazione delle dinamiche di popolazione, EGEA, Milano, 2022, p. 146.
In Italia spesa pensione nel 2025 al 16,2% Pil, top paesi Ocse, confesercentinazionale.it, 13.12.2023.

Umberto Camillo Iacoviello

Battitore libero del pensiero non conforme, scrive per diverse testate e blog. Si interessa di dinamiche demografiche, storia, geopolitica e «ideologie alla moda».