di Claudia Ruvinetti

Gustav Mahler disse che la “tradizione non è culto delle ceneri ma custodia del fuoco”. Far memoria della tradizione non è “chinare il capo al passato”, non è lasciare alle “ceneri del ricordo” di portare fino a noi le immagini di un tempo ormai andato. Omaggiare la tradizione è ben altro: è mantenere vivo quel “fuoco” che brucia nei solchi lasciati dalle vite di chi ha abitato questa terra, alimentarlo con storie evocative ed emozioni travolgenti.

La fiaccola olimpica è il simbolo di un passaggio di testimone tra le generazioni passate e future, attraverso la quale il Paese che ospita i giochi utilizza un’occasione unica per farsi vedere al mondo, aprendo le finestre sul racconto di sé, creare un mito per diffonderlo agli spettatori.

Finita l’epoca delle grandi narrazioni, l’inaugurazione dei giochi olimpici di Parigi 2024 ci ha consegnato uno spettacolo lisergico in cui si consumava «l’ultima cena dell’Occidente», un addio ad una tradizione di classicità e armonia che lascia al posto alla provocazione fine a sé stessa, tra parodie di opere leonardesche in salsa queer (con tentativo di smentita postuma andata male), spettacoli violenti e simulazioni di decapitazioni della Rivoluzione Francese.

I tre del pelo selvaggio

Una foto di un mese fa, ripresa dai tutti i quotidiani italiani, ritraeva il debutto di tre eurodeputati del gruppo di sinistra The Left: il «il primo giorno di scuola» del tridente d’attacco Lucano/Rackete/Salis, accomunati da un passato discusso – potremmo dire movimentato e movimentista – ricco di capi di imputazione di un certo livello. La foto ritraeva i protagonisti della ribellione (in)civile vestiti in abiti sciatti, felici nel loro look dimesso e, per quanto riguarda la Rackete, ignari dell’esistenza della nobile e popolare professione dell’estetista.

Questi due eventi hanno in comune il rifiuto del bello in ogni sua forma, da quella classica a quella moderna, dal senso del decoro deturpato all’ipocrisia stridente di chi vuol stare a tutti i costi nei consessi istituzionali fingendo che non lo siano.

La parola «decoro» viene dal latino «decus» e significava un misto tra onore, grazia, ornamento e bellezza. I latini sapevano già che l’estetica è in quale modo principio di etica, la forma dà struttura alla sostanza e crea linguaggi immortali. Ma non è solo l’abbigliamento nelle situazioni pubbliche a essere investito da una carica di bruttezza: il decoro è scomparso dal linguaggio (pensiamo all’impoverimento dei registri linguistici e del vocabolario), il buon gusto è fuggito dalla relazioni, nelle quali si mette piazza ogni tipo di sfumatura privata.

L’abito fa il monaco?

Se è vero che non si può giudicare del tutto le persone dall’abbigliamento, poiché molto dello stile personale viene portato avanti per sterile imitazione, è indubbio che il vestiario è un codice di comunicazione, parla per noi, esprime messaggi; come tutti i codici deve essere interpretato e per tanto è sempre meglio che non sia facilmente fraintendibile.

Quanto conta l’attrattività del parlante nella formazione di un’opinione? Secondo alcuni studi gli indizi «estetici» (altrimenti detti periferici) contano molto, soprattutto in casi in cui l’ascoltatore non sia una persona estremamente motivata a capire.

Il cambiamento di un’opinione o di un atteggiamento, il quale dipende da un messaggio persuasivo, è l’esito di due tipi di processi: uno centrale e uno periferico. Il processo centrale indaga le argomentazioni e la qualità degli argomenti, è tipico di persone motivate ed esperte, che indagheranno a fondo il messaggio senza farsi distrarre. La maggior parte di noi, però, ove non particolarmente motivata, utilizza euristiche, scorciatoie di pensiero in cui ci concentriamo su aspetti periferici del messaggio, come l’autorevolezza della fonte, il contesto, o appunto il look e l’attrattività della fonte.

La pretesa delle persone di non essere giudicate dall’aspetto – istanza perorata soprattutto dalle donne, in questo momento storico, bisogna ammetterlo – è fallace non solo per una presa di posizione politica, quanto poiché inapplicabile, in quanto la forma non è sempre districabile dal contenuto.

Il cattivo gusto

Il nostro tempo sta combattendo con successo contro la bellezza e la verità, sia attaccando con le armi della tecnica sia con le espressioni messe a disposizione dai teorici del postmoderno. Il cattivo gusto risiede nell’imitazione dei presunti valori eterni cercando un’arte che «dia un messaggio», sempre in linea con il mainstream, tramutando gli artisti in meri esecutori di un’agenda, senza l’ispirazione di creare il bello, di esprimere un’ opera frutto di una ispirazione interiore e prerazionale.

La parola Kitsch, in tedesco, significa «robaccia», è un termine abbastanza comune per indicare qualcosa che è di cattivo gusto, nell’arte come nei comportamenti. In questi ultimi anni abbiamo assistito ad una mutazione antropologica, la sinistra, che comunque conservava una sorta di ideale di bellezza e di sacralità, l’ha abbandonato, preferendo la distruzione della forma, attraverso la dissoluzione non solo dei valori, ma addirittura delle opere d’arte, di cui è tragico emblema il vandalismo di opere d’arte, iconoclastia di simboli e di significati che ci consegna un presente in cui il radical chic si è trasformato in radical kitsch.

claudia ruvinetti
+ post

Laureata in Psicologia, militante politica, coltiva parallelamente la passione per i temi della comunicazione politica, del rapporto fra i sessi e della storia militare.