di Lorenzo Bernasconi

Da trentatré anni a Băile Tușnad, un minuscolo villaggio nella Transilvania romena abitato in prevalenza da ungheresi etnici (che, con circa un milione e quattrocentomila cittadini, rappresentano la più corposa minoranza etnico-linguistica del Paese) si tiene un festival che attira migliaia di ungheresi non solo dalla Romania e dalla vicina madrepatria, ma da tutta Europa e oltre.

Si tratta di un evento unico nel suo genere, in cui politica, approfondimento culturale, musica, cibo e divertimento si amalgamano in modo inedito, dando vita a un mix estremamente eterogeneo, e tuttavia armonico e coinvolgente, culminando nel discorso in cui, il sabato mattina, il primo ministro Viktor Orbán traccia un quadro della condizione presente della nazione magiara, ma soprattutto illustra la propria visione dell’Ungheria di domani e i punti cardine del proprio programma per i mesi e gli anni a venire.

Quest’anno, su gentile invito della Fondazione Wacław Felczak, ho avuto l’onore di partecipare a uno dei tanti dibattiti organizzati nella cornice del festival, confrontandomi con colleghi ungheresi e polacchi sul futuro della cooperazione tra le forze patriottiche e sovraniste dei nostri paesi; ciò mi ha dato l’opportunità di trascorrere un’intera settimana tra dibatti, concerti, danze tradizionali e dj set, osservando con attenzione ogni dettaglio di questo evento così lontano da ciò a cui siamo abituati in Europa occidentale, e ne ho tratto due lezioni che vorrei ora offrire al mondo conservatore italiano.

Prima lezione: il comizio in stile anni ’60 ha fatto il suo tempo, è ora di andare oltre

Non è un mistero come, dal secondo dopoguerra a oggi, ben poco sia cambiato nel modo in cui i politici italiani gestiscono l’incontro vis-à-vis col proprio elettorato: eccezion fatta per i selfie di rito, entrati ormai da qualche anno nella liturgia politica di tutte le forze appartenenti all’arco costituzionale, le piccole o grandi riunioni di partito si risolvono perlopiù in una serie interminabile di discorsi da parte di esponenti in cerca di una photo opportunity e dei tanto ambiti quindici minuti di celebrità; quanto il pubblico nostrano li ascolti realmente, o quanto cerchi invece rifugio negli smartphone, nelle chiacchiere coi vicini e negli immancabili punti di ristoro, non è dato sapere: tuttavia, l’immancabile brusio di fondo lascia facilmente immaginare che il livello medio di attenzione non sia dei più elevati.

Gli ungheresi hanno invece optato per un approccio del tutto diverso: pochissimi (e brevi) discorsi da comizio, molti panel – anche in contemporanea – su temi specifici, imperniati su di un dibattito agile e dinamico tra esperti di varie estrazioni e nazionalità, così da attrarre un pubblico variegato per formazione e interessi, offrendo a ciascuno la possibilità di approfondire le tematiche che più gli stiano a cuore.

E, soprattutto, moltissime opportunità per ridere, fare amicizia e vivere un’esperienza di autentica comunità. A Băile Tușnad si è circondati da sconosciuti, eppure ci si sente a casa: famiglie con bambini, giovani e giovanissimi (tanti, davvero tanti!), ma anche anziani e persone di mezza età; appassionati di danze tradizionali e cultori della musica techno, violinisti e metallari, persone comuni e massime cariche dello Stato, tutti sono accomunati dalla voglia di divertirsi, ballare, incontrare vecchi e nuovi amici al di là di ogni barriera sociale o economica, perché l’appartenenza a un unico popolo e lo spirito di festa che permea la cittadina rappresentano un legame più forte di qualsiasi differenza.

Una sorta di Oktoberfest, insomma, per come la manifestazione bavarese probabilmente è stata prima di diventare un fenomeno commerciale: con, in più, la capacità di nutrire non solo lo stomaco dei partecipanti, ma di rifocillarne anche l’intelletto e l’anima.

Si tratta di un modello che non ha eguali in terra italiana, sebbene Atreju – la convention di Fratelli d’Italia – abbia cercato, perlomeno nell’ultima edizione, di andare in questa direzione; ma la strada da fare è ancora tanta.

Seconda lezione: l’etnonazionalismo non è il male assoluto

Anzi; semmai, allo Stato attuale, è l’unica tipologia di nazionalismo a essersi rivelata in grado di resistere alla terrificante pressione omologatrice esercitata dal liberal-capitalismo globalista. Si tratta, ne sono consapevole, di un tema scomodo e scivoloso nel nostro paese, che ha vissuto gli anni tragici del fascismo, della deportazione degli ebrei, dell’occupazione nazista.

Parlare di «razze» o di «etnie» è tutt’oggi un tabù (benché ne faccia menzione persino la Costituzione della Repubblica Italiana) e lo dimostra ampiamente la pioggia di polemiche che ha investito Roberto Vannacci, oggi europarlamentare, per alcune considerazioni – invero, dal mio punto di vista, assolutamente legittime e in buona parte anche condivisibili – circa la differenza tra cittadinanza italiana e italianità in senso fenotipico ed etno-culturale.

Tuttavia, come ben esemplificato dalla vicenda di Galileo Galilei, evitare di affrontare un tema solo perché esso crea imbarazzi e mette in discussione delle assunzioni dogmatiche – l’esattezza della cosmologia biblica allora, l’inesistenza o l’irrilevanza di qualsiasi differenza tra gruppi etnici oggi – non si rivela mai, nel lungo periodo, una grande strategia.

Ritengo però indispensabile chiarire cosa si debba intendere quando si parla di etnia, e per farlo occorre risalire al greco ethnos da cui il termine italiano trae origine. Ethnos, presso i greci, indicava un popolo, una nazione: identificava, cioè, un gruppo di individui uniti da una complessa trama di legami che erano contemporaneamente biologici, storici, linguistici e culturali.

La demonizzazione del termine nel corso degli ultimi decenni è legata ad un processo – la cui genesi in realtà si può far risalire fino all’ottocento – di graduale ma inesorabile slittamento di significato che ha visto un’enfatizzazione della componente biologico-genetica a discapito di tutte le altre, arrivando dunque ad assimilare in buona misura il significato del termine etnia a quello del termine razza, e dunque a condividere con quest’ultimo la triste sorte dell’espulsione dal dibattito pubblico.

Tuttavia, è al significato originale di ethnos che mi riferisco qui ogni qualvolta utilizzo la parola etnia o i suoi composti: etnia (o popolo), cioè, come comunità di persone che condividono un medesimo universo culturale e spirituale, e in cui la condivisione anche di tratti fisici e genetici è sì un dato innegabile le cui ragioni storiche si possono facilmente comprendere, ma tuttavia non rappresenta il fondamento o il fattore unificante principale.

Il modo con cui un popolo percepisce e pensa sé stesso gioca un ruolo fondamentale nel determinarne il destino: la straordinaria resilienza degli ungheresi, che sono riusciti a sopravvivere attraverso i secoli senza mai farsi assimilare dalle nazioni vicine – assai più popolose e potenti – è figlia di una concezione di «magiarità», profondamente radicata nell’immaginario collettivo, non basata sull’idea giuridico-burocratica di cittadinanza tanto in voga nei paesi dell’Europa occidentale, ma semmai sull’appartenenza a una comunità che – quand’anche sparsa ai quattro angoli del mondo – rimane unita da un legame spirituale fondato su una lingua, una cultura e una storia comuni.

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A differenza di quanto avviene in Italia, non si diventa ungheresi – quantomeno nel senso spirituale del termine – semplicemente acquisendo la cittadinanza magiara: si tratta di un processo molto più lungo e complesso, per completare il quale forse non basterebbe una vita intera a chi non sia nato, o non sia arrivato in tenerissima età, all’interno di quella comunità nazionale.

Appare facile, certo, seguendo i nostri pregiudizi occidentali, biasimare questa difficoltà d’accesso bollandola come chiusura e come potenziale fonte di discriminazioni e diseguaglianze: tuttavia, sarebbe un gravissimo errore. L’irto cammino che deve intraprendere chi voglia avventurarsi in profondità nella cultura e nella società ungheresi non dipende infatti da una ipotetica «chiusura» arbitraria di natura politica, ma piuttosto da fattori storici e squisitamente pre-politici, a partire dall’estrema complessità della lingua magiara, che risulta incredibilmente difficile da apprendere in età adulta, costituendo pertanto una sorta di barriera naturale.

La singolarità di un idioma che non deriva – a differenza di quasi tutte le lingue dell’Europa contemporanea – dal ceppo linguistico indoeuropeo ha indubbiamente giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo e nella conservazione dell’identità magiara nel corso dei secoli.

Un secondo fattore, profondamente legato alla questione linguistica, è poi la specificità della cultura locale che, pur avendo attinto ampiamente, nel tempo, stimoli e suggestioni dalle altre nazioni europee, proprio grazie alla barriera della lingua ha resistito a ogni forma di assimilazione, anche laddove, per le varie traversie della storia, comunità magiare si siano trovate a vivere da minoranza in terre dominate da altri popoli; ciò ha permesso ad una nazione le cui radici affondano nella notte dei tempi di preservare i propri costumi e le proprie tradizioni pressoché intatti, seppur via via arricchiti e affiancati da contributi e innovazioni provenienti da altre realtà.

Ciò rende la cultura magiara estremamente ricca e, proprio per questo, difficile da comprendere a fondo: ma, del resto, come ci insegnano tre millenni di narrativa epica da Gilgamesh, ai poemi omerici, fino a Tolkien, nella vita ciò che è prezioso non si conquista mai facilmente.

Conclusioni: che cosa dobbiamo imparare noi italiani

Ma veniamo a noi. La cultura e la lingua italiane, pur estremamente ricche e variegate, per mille ragioni storiche non presentano né la medesima compattezza, né le medesime barriere all’ingresso di quelle magiare; è una differenza di cui dobbiamo tenere conto, certo, e che indubbiamente presenta risvolti sia positivi che negativi.

Tuttavia, mi sembra che, a dispetto della naturale «permeabilità» della nostra cultura nazionale, da trent’anni a questa parte in Italia si faccia letteralmente a gara per smantellare completamente il nostro idioma, le nostre tradizioni e la nostra stessa società in nome dell’accoglienza e dell’inclusione e di chi approda (legalmente o meno) nel nostro paese per trasferirvisi in pianta stabile; si nascondono i simboli della cristianità, si censurano Dante e Manzoni, si coprono le statue degli artisti rinascimentali per non urtare sensibilità vere o presunte di chi arriva dall’altra parte del mondo.

E anche quando, da destra, si cerca di ridare dignità al concetto di nazione (opera meritoria, sia chiaro), lo si fa quasi sempre sulla base di un’idea puramente burocratica di italianità, secondo la quale, cioè, l’appartenenza si fonderebbe sostanzialmente sul semplice possesso di un passaporto. Il che, se guardiamo alla condizione in cui versano le principali città italiane, che stanno letteralmente morendo d’immigrazione, evidentemente non basta.

Al formalismo e alla burocraticità che caratterizzano il nazionalismo moderno in molti paesi dell’Europa occidentale voglio contrapporre, per spiegare il modello ungherese, il concetto di etnonazionalismo, inteso come riconoscimento e promozione di una comunità nazionale unita da fattori culturali, spirituali e storico-linguistici prima ancora che giuridico-burocratici.

E vorrei invitare il mondo della politica italiana a prendere spunto e ispirazione dal paese magiaro, per infondere finalmente slancio e profondità in un tentativo di pensare l’italianità che finora non ha saputo andare molto oltre la buona cucina e la dolce vita.

Un simile cambio di paradigma significherebbe, certo, ammettere che sì, probabilmente esistono davvero singoli casi di giovani figli di immigrati che si sentono italiani e hanno abbracciato in toto la nostra cultura, e prendere atto che negare loro la cittadinanza in base ai bizantinismi della nostra legislazione rappresenta a tutti gli effetti uno sbaglio.

Significa, però, anche riconoscere che sul nostro territorio vivono molti, moltissimi altri immigrati e figli di immigrati cui abbiamo commesso l’imperdonabile errore di concedere la cittadinanza italiana sulla scorta del soddisfacimento di requisiti meramente formali, ma che non si sentono, né vorranno mai sentirsi, parte del nostro ethnos, del nostro popolo.

Persone che vedono l’Italia come una terra di conquista e che non provano il benché minimo desiderio di integrarsi, ma che ambiscono semmai a imporre a tutti noi la loro idea di comunità, non appena avranno la forza materiale per farlo.

Significa rendersi conto, una volta assodato che una Nazione è molto più di un insieme di individui uniti soltanto dal possesso di un medesimo passaporto, che chiunque voglia continuare a vivere in un universo culturale e valoriale che appartiene storicamente al Pakistan, alla Nigeria o ai paesi del Maghreb, lì deve restare o quantomeno fare al più presto ritorno, per il bene suo e nostro.

Perché essere accolti in una comunità nazionale è un dono prezioso che bisogna sapersi meritare e non dovrebbe mai, checché ne dicano molti giuristi che tutto sanno dei codici e nulla della realtà, essere considerato un diritto o una mera formalità

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Ricercatore del Centro Studi Politici e Strategici Machiavelli, ha lavorato come consulente presso Parlamento Europeo, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Camera dei Deputati e Ministero dello Sviluppo Economico. Laureato in Filosofia all’Università Cattolica di Milano.