di Daniele Scalea e Emanuele Mastrangelo
L’Italia è tornata a discutere di legge sulla cittadinanza. A rinfocolare il dibattito è stata dapprima la vittoria dell’oro olimpico da parte della nazionale femminile di pallavolo: i media hanno enfatizzato la presenza di due giocatrici nere (il più delle volte, ignorando completamente l’esistenza delle altre) e in particolare di Paola Egonu, già nota alle cronache come fustigatrice del presunto razzismo italico e per essere stata portata come esempio da Roberto Vannacci, nel suo famoso libro, di tratti somatici non tipicamente italiani.
Dopo di che, Antonio Tajani e Forza Italia hanno deciso, malgrado l’Italia sia già il paese europeo più generoso (numeri alla mano) nel concedere la cittadinanza agli stranieri, di tendere una mano alla Sinistra col cosiddetto ius scholae. Senza entrare, per ragioni di spazio, nel (de)merito di tale proposta, prendiamo solo nota, nell’ampio dibattito che ne è scaturito, di una posizione che ha fatto particolarmente discutere. L’autore – tanto per cambiare – il neo-europarlamentare Vannacci.
Il Generale Vannacci, nell’esprimere la sua contrarietà alla proposta di Tajani, ha ricordato che la cittadinanza comporta diritti e doveri, e che il fatto di studiare in Italia non implica l’automatica accettazione di questi ultimi. I tre doveri cui si riferisce sono: il rispetto delle leggi, il contributo fiscale, la difesa della Patria. Così in un intervento alla Versiliana, poi reiterato in un’intervista a margine, durante la quale Vannacci si è chiesto: “Chi fa la scuola da noi è disposto a difendere il nostro suolo anche a scapito della propria vita?”
Un pensiero esatto quello del Generale #Vannacci.
Quanti degli immigrati a cui abbiamo regalato la cittadinanza italiana sarebbero disposti ad imbracciare le armi, a difendere e morire per il nostro Paese?
Io credo in pochi, pochissimi. pic.twitter.com/OhtrSwJowk
— Francesco 🇮🇹 (@SaP011) August 27, 2024
Il terzo dovere in particolare, “il sacro dovere di difendere la Patria” (Art. 52 della vigente Costituzione), ha suscitato subito reazioni piccate. Ma anche ricordato, a più d’uno, quanto scritto in un libro, tanto orecchiato quanto misconosciuto, da un altro Robert(o) nato militare e divenuto scrittore. Ci riferiamo a Starship Troopers (“Fanteria dello spazio”) di Robert A. Heinlein. E cogliamo al balzo l’occasione, le parole di Vannacci, per dedicare a esso qualche riflessione.
Starship Troopers – il libro, non il film
L’autore americano (1907-1988) è ampiamente riconosciuto come uno degli scrittori che, negli anni ’40 e ’50, seppero portare la fantascienza dai romanzi d’appendice nei cosiddetti giornaletti “pulp” al riconoscimento come degno genere letterario. Starship Troopers, pubblicato nel 1959, è la sua opera più famosa e forse più controversa. Basti pensare che il suo editore di allora, Scribner’s, dopo anni di collaborazione, gli rifiutò il romanzo con una gelida lettera prestampata. Heinlein, che era già un autore famoso, dovette attendere oltre un anno prima di trovare un altro editore disposto a pubblicare il romanzo.
Molti potrebbero avere presente, più del libro, la trasposizione cinematografica nell’omonimo film del 1997 di Paul Verhoven. Sgombriamo subito il campo da ogni possibile fraintendimento. Pellicola diventata suo malgrado iconica, era il tentativo di sfruttare la trama di Fanteria dello Spazio per fare una satira della società dei media (internet era allora agli albori), contemporaneamente criticando i temi militaristi del romanzo di Heinlein. Un risultato mancato, perché alla fine la fetta di pubblico che ha apprezzato il film (pochi, in realtà), lo hanno fatto per i motivi opposti a quelli che Verhoven s’aspettava…
Lo stravolgimento di senso comportò anche uno stravolgimento di forma. Si pensi a come Verhoven abbia preteso di raffigurare una società dai chiari tratti nazistoidi – anche a costo di far impersonare il protagonista e il principale soggetto femminile, il filippino Juan “Johnny” Rico e l’ispanica Carmen Ibanez, dai biondissimi e occhio-cerulei Casper Van Dien e Denise Richards. Inoltre, il film contiene molte più sequenze di azione e combattimenti, rispetto al libro che, per una buona metà, racconta solo l’addestramento del protagonista (con grande attenzione ai dettagli e realismo, essendo stato Heinlein un ufficiale della US Navy) e la spiegazione ideologica del mondo del futuro in cui la storia è ambientata.
La cittadinanza secondo Heinlein
Un mondo del futuro che ha scandalizzato una vasta platea, a partire da Charles Scribner. Nel mezzo della sua storia fantascientifica sulla guerra tra una federazione umana estesa su decine di pianeti e una razza di aracnidi tecnologicamente avanzata, Heinlein interpolava numerose riflessioni sulla società e la storia. Una di queste è proprio quella riguardante la cittadinanza che, nello scenario da lui immaginato, era conferita solo a coloro che avessero prestato e terminato con onore il servizio militare, del tutto volontario e facoltativo.
La logica era quella di bilanciare al meglio autorità e responsabilità. Attribuire la responsabilità a qualcuno che non ha l’autorità è assurdo; dare l’autorità a un irresponsabile è disastroso. Il voto, scrive Heinlein, è autorità, l’autorità suprema da cui derivano tutte le altre; mentre la responsabilità si dimostra considerando il benessere della maggioranza più importante di quello personale: la moralità si capisce quando si capisce la mamma gatta che muore per difendere i gattini, dice Heinlein in una delle tante frasi dal sapore aforistico per le quali è famoso. Tale dimostrazione si dà attraverso il servizio in armi: “Chiediamo a chiunque desideri esercitare un controllo sullo Stato di mettere in gioco la sua stessa vita, e perderla se necessario, per salvare la vita dello Stato”.
Secondo Heinlein, le nostre democrazie hanno un rapporto sbilanciato tra autorità e responsabilità. Garantiscono il diritto di voto a chiunque, senza alcuna verifica del suo senso di responsabilità: “Se votava l’impossibile, accadeva invece il disastro possibile”.
La tesi di Heinlein appare forse estrema, ma l’autore la giustificava col fatto che ogni sistema democratico ha già dei limiti al diritto di voto, per esempio quelli d’età (“Perché un cretino di 30 anni dovrebbe votare meglio di un genio di 16?”). Heinlein, allora, decide di immaginare un futuro in cui l’elettorato passivo e attivo è selezionato solo ed esclusivamente su un principio di abnegazione verso la collettività. Una sorta di versione volontaristica delle antiche democrazie greco-romane o delle “nazioni in armi” sette-ottocentesche (si pensi alle tesi di Giuseppe Garibaldi), in cui tuttavia la partecipazione non era volontaria, ma data per scontata: “Ogni cittadino è un soldato, ogni soldato è un cittadino”. Heinlein, figlio dell’America più libertaria, vi aggiunge il principio del volontarismo: chi non vuole, può comodamente restar fuori, nessuno lo molesterà.
È molto ironico il fatto che i principali detrattori delle idee di Heinlein sono quegli ambienti che, spostandoci dal 1959 a oggi, accarezzano proposte di limitazione del suffragio universale sulla base di un altro tipo di merito, la conoscenza. Costoro teorizzano di escludere dal voto gli “analfabeti funzionali”, spesso definendo così tutti coloro i quali non si conformano al pensiero unico. Dietro la maschera della meritocrazia, v’è in realtà il conformismo ideologico. È dal 2016, anno della Brexit e di Trump, che leggiamo altezzose posizioni sull’abolizione del suffragio universale. Una contro-deduzione che peraltro lo stesso Heinlein affronta e smantella senza pietà proprio nelle pieghe del suo romanzo: “Perché non far votare solo i più colti e i più intelligenti?” chiede uno dei personaggi. “Perché essere un genio non significa automaticamente avere a cuore l’interesse collettivo”, è la risposta. Gioco, partita, incontro.
La società dei diritti
Quello tra autorità e responsabilità non è, secondo Heinlein, l’unico squilibrio insito nelle nostre democrazie. L’altro è quello tra diritti e doveri.
“La base di ogni moralità è il dovere” verso la collettività, si legge in Starship Troopers. L’acquisizione del concetto di dovere, anteposto all’istintivo amor proprio, segna il passaggio all’età adulta. La nostra società, però, parla incessantemente di diritti. I cittadini esaltano la mitologia dei “diritti” e perdono di vista i doveri. “Nessuna nazione, così costituita, può durare” – affermava l’autore americano, che aveva già espresso la sua visione etica del mondo basata sullo spirito di sacrificio individuale nello struggente racconto La lunga guardia, in cui un uomo impedisce un golpe a costo della vita e prima di morire si vede circondato dagli spiriti di tutti gli eroi, da quello umile e sconosciuto al decorato di guerra più famoso, che hanno sacrificato la loro vita per la collettività.
Ad applicare le virgolette a “diritti” non è stato chi scrive quest’articolo, ma lo stesso romanziere di Butler, Missouri. Egli non credeva all’esistenza di diritti naturali e inviolabili. Non esiste un diritto naturale alla vita, scriveva, perché l’oceano non ascolta le invocazioni dell’uomo che affoga; né il padre che si rifiutasse di morire, quando non vi è altra scelta per salvare i suoi figli, potrebbe giustificarsi col proprio diritto alla vita. Il sacrificio della vita è stato anzi indispensabile per conquistarne un altro, la libertà, che non è a sua volta un “diritto naturale” ma dev’essere regolarmente riscattata col sangue dei patrioti. Sublimare l’istinto di conservazione dal sé alla collettività di cui si è parte (in primis la famiglia, ma vale altrettanto per la nazione) è, secondo Heinlein, all’origine del senso morale: “Il destino più nobile che un uomo possa affrontare è quello di frapporre il proprio corpo mortale tra la sua amata casa e la desolazione di una guerra”.
Il crepuscolo dell’Occidente
Sebbene ciò ci allontanerà dal tema iniziale, ossia quello della cittadinanza, non possiamo esimerci dal seguire il filo della critica alla nostra società contenuta in Starship Troopers. Scriviamo “nostra” perché, malgrado Heinlein pensasse a quella americana degli anni ’50, prevedeva con grande lungimiranza il decorso del declino morale dell’Occidente. Quando descriveva la fase ultima della morente liberal-democrazia, dipingeva un quadro ahinoi molto simile a ciò che abbiamo oggi di fronte agli occhi. Ecco una lezione raccontata dal professore di storia del protagonista Rico:
“I cittadini rispettosi della legge”, ci disse Dubois, “difficilmente osavano avventurarsi in un parco pubblico di notte. Farlo significava rischiare di essere attaccati da branchi di ragazzini, armati con catenere, coltelli, pistole fatte in casa, randelli… essere per lo meno feriti, quasi certamente rapinati, probabilmente menomati per la vita – o persino uccisi. (…) Omicidi, tossicodipendenza, furti, aggressioni e vandalismi erano comuni. Né i parchi erano gli unici posti – queste cose avvenivano per strada alla piena luce del giorno, nei cortili delle scuole o persino dentro gli edifici scolastici.
Ricorda, purtroppo, la situazione di degrado e insicurezza che di anno in anno si fa più preoccupante nelle nostre strade, e che spesso vede protagoniste baby gang.
Heinlein aveva una teoria chiara: la diffusione della criminalità giovanile dipende dalla mancanza di punizioni adeguate. Prima dai genitori, poi dallo Stato. Egli era a favore delle punizioni corporali (le considerava democratiche: una frustata colpisce il ricco tanto quanto il povero, ma una multa è in grado di mettere a terra il povero ed essere liquidata con una risata dal ricco), ma soprattutto disapprovava che non venga subito inferta una pena severa e in grado di correggere il giovane delinquente. Si procede invece per sanzioni blande fino al raggiungimento dell’età adulta e solo allora, improvvisamente, si punisce con severità chi non si era voluto educare e salvare prima (Heinlein era ottimista: oggi anche per i criminali adulti le pene esemplari sono un miraggio).
La denatalità
“Dulcis in fundo” – o forse sarebbe meglio scrivere: “in cauda venenum”. Nelle pagine di Starship Troopers troviamo un altro magistrale ammonimento contro un altro male della nostra civiltà, forse quello supremo: la sterilità, la mancanza di figli.
Ragionando se sia possibile cancellare la guerra tramite il controllo delle nascite – ossia limitarsi numericamente per non avere bisogno di risorse aggiuntive da conquistare – Heinlein vergava una sentenza memorabile, che il quadro attuale dell’Europa ci conferma essere vero:
(…) qualsiasi stirpe che interrompa il suo incremento si vede togliere lo spazio dalle stirpi in espansione. Alcune popolazioni umane lo hanno fatto, nella storia terrestre, ed altre stirpi le hanno invase e travolte.
Conclusione
Il pensiero di Heinlein sembra riecheggiare in quello di Roberto Vannacci. Quanti degli immigrati a cui abbiamo regalato la cittadinanza italiana sarebbero disposti ad imbracciare le armi, a difendere e morire per il nostro Paese? Io credo in pochi, pochissimi. Forse persino meno di quelli disposti a imbracciare le armi e morire contro la nostra Patria (non è una congettura malevola: in Gran Bretagna negli anni scorsi si appurò che gli abitanti musulmani partiti per unirsi a ISIS erano il doppio di quelli che si erano arruolati volontari nelle Forze Armate del “loro” Paese).
E se il progressista medio citato sopra può obbiettare che anche un bel po’ di italiani per ius sanguinis oggi rifiuterebbe di difendere in armi la Patria, questo non autorizza a elargire la cittadinanza con superficiale faciloneria. Non è solo una questione di sicurezza nazionale (nella lotta anti-terrorismo, lo strumento dell’espulsione amministrativa si perde nei confronti di islamisti con cittadinanza). Occorre bensì una riflessione su quell’articolo 52 che i Padri Costituenti avevano concepito dopo attenti e approfonditi dibattiti nel 1948, considerando proprio che l’unica volta che il termine “sacro” compare in Costituzione è proprio in quel passaggio.
Tutto fa dunque pensare che il problema non sia nell’allargare le maglie della concessione della cittadinanza, ma al contrario, ripensarle. E – paradossalmente – là dove ampollosi dibattiti lanciati dalle interessate tifoserie di ius soli e ius scholae stanno fallendo pietosamente, un romanzo di fantascienza per ragazzi di 70 anni fa sembra darci spunti che meritano d’essere valutati con umiltà e realismo.
Fondatore e Presidente del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Scienze storiche (Università degli Studi di Milano) e Dottore di ricerca in Studi politici (Università Sapienza), è docente di "Storia e dottrina del jihadismo" presso l'Università Marconi e di "Geopolitica del Medio Oriente" presso l'Università Cusano, dove in passato ha insegnato anche in merito all'estremismo islamico.
Dal 2018 al 2019 è stato Consigliere speciale su immigrazione e terrorismo del Sottosegretario agli Affari Esteri Guglielmo Picchi; successivamente ha svolto il ruolo di capo della segreteria tecnica del Presidente della Delegazione parlamentare presso l'InCE (Iniziativa Centro-Europea).
Autore di vari libri, tra cui Immigrazione: le ragioni dei populisti, che è stato tradotto anche in ungherese.
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