di Daniele Scalea

A pochi giorni dall’apertura delle aree di identificazione e rimpatrio per immigrati clandestini costruite in Albania, è giunto il pronunciamento della magistratura che ha subito imposto il ritorno in Italia dei primi 16 individui portati oltremare. Immediatamente è montata la polemica politica. Da un lato le opposizioni che, in una coincidenza alquanto sospetta, hanno nelle medesime ore chiesto all’Unione Europea di sanzionare l’Italia: esse hanno attaccato il Governo per lo stop subito da quello che appare un elemento importante nella strategia per rendere più sicure le nostre frontiere. Dall’altro il Governo stesso, che ha duramente criticato la sentenza giudicandola infondata e politicamente motivata.

Chi ha ragione e perché? Cerchiamo di comprenderlo analizzando la sentenza del Tribunale di Roma.

Cosa dice il decreto del Tribunale di Roma

La Sezione specializzata in materia di diritti della persona e immigrazione del Tribunale di Roma non ha convalidato il trattenimento di alcuni cittadini del Bangladesh e dell’Egitto in Albania.

I decreti arguiscono che, consentendo il Protocollo con l’Albania l’ingresso e la permanenza dei migranti solo per effettuare le procedure di frontiera e di rimpatrio, allora si deve applicare il d.lgs. n. 25/2008, all’art. 28-bis relativo alle procedure accelerate. Le procedure accelerate consistono in un esame della domanda di protezione internazionale che si svolge in tempi più rapidi rispetto alla procedura ordinaria: la Commissione Territoriale, ricevuta la documentazione dalla Questura, provvede all’audizione entro 7 giorni e decide entro i successivi due giorni.

Questa procedura accelerata, stabilisce sempre il d.lgs. n. 25/2008, si applica solo per richiedenti fermati dopo aver eluso o tentato di eludere i controlli alle frontiere o a richiedenti che provengono dai Paesi designati come sicuri. Dal momento che il Protocollo con l’Albania prevede che vi si rechino solo migranti imbarcati su mezzi italiani al di fuori delle acque territoriali, è la parte relativa ai Paesi sicuri che trova applicazione. Qui si arriva al nodo della decisione dei giudici della sezione specializzata.

Bangladesh ed Egitto come Paesi sicuri

Apriamo qui una parentesi. Il d. lgs. n. 25/2008, art. 2-bis, modificato col decreto legge 113/2018, ha assegnato al Ministero degli Esteri, di concerto con quelli degli Interni e della Giustizia, il compito di adottare e aggiornare l’elenco dei Paesi di origine sicuri. La legge stabilisce che “la designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l’eccezione di parti del territorio o di categorie di persone”.

Il 7 maggio scorso il Ministro degli Esteri Antonio Tajani ha, con apposito decreto, aggiunto Bangladesh, Camerun, Colombia, Egitto, Perù e Sri Lanka all’elenco dei Paesi sicuri. La decretazione è avvenuta visto l’appunto n. MAECI_1311_06/05/2024_0056895-I, in cui, in relazione al Bangladesh, si attesta che “in via generale e costante (uniforme)” non sussistono atti di persecuzione come definiti dalla Direttiva 2011/95 dell’Unione Europea all’articolo 9, ossia atti che “sono, per loro natura o frequenza, sufficientemente gravi da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali” o “costituiscono la somma di diverse misure, tra cui violazioni dei diritti umani”.

Alla voce relativa alle eccezioni, la scheda ministeriale reca quanto segue:

I casi in cui si riscontra un effettivo bisogno di protezione internazionale sono principalmente legati all’appartenenza alla comunità LGBTQI+, alle vittime di violenza di genere, incluse le mutilazioni genitali femminili, alle minoranze etniche e religiose, alle persone accusate di crimini di natura politica e ai condannati a morte. Si segnala anche il crescente fenomeno degli sfollati “climatici”, costretti ad abbandonare le proprie case a seguito di eventi climatici estremi.

La scheda dell’Egitto rileva invece queste eccezioni:

Si ritengono necessarie eccezioni per gli oppositori politici, i dissidenti, gli attivisti e i difensori dei diritti umani o per coloro che possano ricadere nei motivi di persecuzione di cui all’articolo 8, comma 1, lettera e) del Decreto Legislativo 19 novembre 2007, n. 251 [ossia per opinione politica, NdA]

La sentenza della Corte di Giustizia UE richiamata dal Tribunale di Roma

La Sezione specializzata romana contesta la definizione del Bangladesh e dell’Egitto come Paesi sicuri poiché, nella scheda del Ministero degli Affari Esteri, si pone l’eccezione per alcune categorie di persone. Queste eccezioni, affermano i giudici, non permettono di considerare il Bangladesh e l’Egitto come sicuri, e per sostenere tale tesi si cita una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, alla causa C-406/22. Sentenza molto recente, risalente al 4 ottobre scorso.

Il caso riguardava un cittadino moldavo che aveva fatto richiesta di asilo in Cechia. Il moldavo sosteneva di essere stato oggetto di pesanti intimidazioni dopo aver assistito a un incidente automobilistico nel 2015. La Cechia aveva rigettato la richiesta poiché la Moldavia è considerata un Paese sicuro con l’eccezione di una regione separatista (e de facto indipendente), la Transnistria. La Corte europea interpreta la Direttiva 2013/32 del Parlamento Europeo e del Consiglio nel senso che non è possibile designare un Paese come sicuro applicandovi delle eccezioni territoriali. Secondo i giudici lussemburghesi, infatti, l’articolo 37 della Direttiva 2013/32 dev’essere interpretato nel senso che “preclude che un Paese terzo sia designato come Paese d’origine sicuro laddove certe parti del suo territorio non soddisfino le condizioni materiali per tale designazione, enunciate nell’Allegato 1 di quella direttiva”.

L’Allegato 1 alla Direttiva esplicita tali condizioni, ossia che

sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95/UE, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.

Si noterà che la Corte esclude che un Paese sia sicuro in presenza di parti del suo territorio che non soddisfino le condizioni predette. Ma il Ministero degli Esteri, rispetto al Bangladesh e all’Egitto, non ha individuato eccezioni territoriali, bensì di categoria. Il Tribunale di Roma si richiama però al punto 68 della sentenza della Corte UE – che sostanzialmente riporta l’Allegato 1 alla Direttiva 2013/32 – per affermare che l’esclusione delle eccezioni territoriali varrebbe anche per le eccezioni relative a categorie di persone. Nel punto 68 non c’è però nessuna esplicita menzione di ciò.

Perché la ricostruzione del Tribunale di Roma non convince

Risulta arduo concordare coi giudici romani che il punto 68 (e dunque l’Allegato 1) davvero “chiariscano” ciò. La Corte di Giustizia dell’UE si è pronunciata esplicitamente solo sull’esclusione di eccezioni territoriali. Asserire  che il punto 68 della sentenza escluda ogni altra forma d’eccezione è quanto meno controverso, per non dire erroneo. Rifiutare dunque la designazione come Paese sicuro sulla base dell’esistenza di eccezioni per categorie di persone (eccezioni contemplate dalla legge, come si è visto, e non esplicitamente prese in considerazione dalla Corte di Giustizia UE) appare una evidente forzatura interpretativa da parte del Tribunale.

Dato che la sentenza della Corte UE non parla di categorie di persone, a rigore la sezione specializzata romana avrebbe dovuto sollevare questione e chiedere alla Corte stessa se il principio dettato per il territorio si applica anche alle categorie di persone. Particolarmente anomalo è che ciò non sia successo, preferendo dare per certa un’interpretazione a dir poco dubbia del diritto UE attualmente in vigore.

La Direttiva 2013/32 fa inoltre riferimento a “persecuzioni generali e costanti”. Persecuzioni che la Direttiva 2011/95, come già ricordato, definisce come “atti gravi di violazione dei diritti umani”. Gravità, costanza e diffusione generale sono caratteristiche tali da configurare una “persecuzione”; il Ministero degli Esteri non le ha ravvisate nel caso del Bangladesh e apparentemente nemmeno dell’Egitto, e il Tribunale di Roma non ha addotto nessun elemento di fatto in grado di provare il contrario.

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Il decreto del Tribunale si fonda essenzialmente sull’immotivato rifiuto delle eccezioni per specifiche categorie, rifugiandosi dietro una sentenza della Corte di Giustizia che nulla dice in merito.

Come il Regolamento (UE) 2024/1348 invaliderà l’obiezione del Tribunale di Roma

A completare questo spiacevole episodio, vi è poi un dato non rilevato sinora da nessuno.

Il Regolamento (UE) 2024/1348, siglato il 14 maggio scorso, entrerà in vigore il 12 giugno 2026 e andrà ad abrogare la vigente Direttiva 2013/32/UE.

Al comma 2 dell’articolo 61 del nuovo Regolamento si legge:

La designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro a livello sia dell’Unione che nazionale può essere effettuata con eccezioni per determinate parti del suo territorio o categorie di persone chiaramente identificabili.

Questo nuovo regolamento (che è stato approvato al Parlamento Europeo grazie anche ai voti della maggioranza del Gruppo Socialisti e Democratici, sebbene col voto contrario di numerosi esponenti del PD che di quel gruppo fa parte) evidenzia ora in maniera inequivoca la possibilità che un Paese sia designato come sicuro anche in presenza di eccezioni, esplicitando che tali eccezioni possono anche riguardare categorie di persone.

Ciò significa che, anche a voler prendere per buona l’interpretazione del Tribunale di Roma, la causa ostativa da esso individuato al trattenimento dei bengalesi ed egiziani in Albania verrà meno tra poco più di un anno e mezzo. Un tempo entro il quale la valutazione delle loro richieste di protezione potrebbe non essersi ancora concluso, se dovessero verificarsi ricorsi e appelli.

Considerazioni sulle sezioni specializzate dei tribunali

Il decreto legge n. 13 del 17 febbraio 2017, emanato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella su proposta del Governo allora capitanato da Paolo Gentiloni – dunque un provvedimento legislativo partorito in ambito PD – istituì le sezioni specializzate in materia di immigrazione presso i tribunali ordinari di Bari, Bologna, Brescia, Cagliari, Catania, Catanzaro, Firenze, Lecce, Milano, Palermo, Roma, Napoli, Torino e Venezia.

In tal modo, la valutazione delle controversie relative alla protezione internazionale è stata sottratta alla normale rotazione della magistratura ordinaria e resa appannaggio di sezioni specializzate, cui sono assegnati, dietro loro richiesta, magistrati che abbiano scelto di specializzarsi in quella materia. Non è difficile intuire che in queste sezioni risultino sovra-rappresentati i magistrati particolarmente sensibili alle ragioni dei migranti, più che a quelle dello Stato. E ciò anche senza voler teorizzare che specifici settori giudiziari, caratterizzati da attivismo ideologico, abbiano strategicamente deciso di confluire verso queste sezioni per “occuparle” e condurre da lì battaglie politiche. Tuttavia, citiamo una curiosa coincidenza che è stata notata da politici e media: della sezione specializzata del Tribunale di Roma fa parte Silvia Albano, presidente di Magistratura Democratica, una componente giudiziaria particolarmente attivista di cui già abbiamo parlato in relazione allo stato di diritto in Italia. Giudice Albano che, per giunta, si era già segnalata come voce critica verso le iniziative governative tese a contrastare l’immigrazione clandestina.

Sarà opportuno che il Governo valuti attentamente se abbia ancora senso e utilità concentrare la materia migratoria in tali apposite sezioni.

Considerazioni sulle schede MAECI

Per quanto il decreto del Tribunale di Roma appaia discutibile, con una lettura forzata di una sentenza della Corte di Giustizia UE, non si può fare a meno di rilevare un aspetto critico relativo alla designazione del Bangladesh e dell’Egitto come Paesi sicuri.

Il Bangladesh in particolare è cruciale all’interno delle strategie di contenimento migratorio del Governo italiano. Si tratta infatti del Paese da cui provengono la maggior parte di immigrati clandestini e richiedenti asilo (il 20% dei clandestini sbarcati nel 2024 ha dichiarato di essere di nazionalità bengalese, ma la proporzione reale potrebbe essere ancora maggiore).

La scheda del MAECI, sulla cui base il Ministro Tajani ha proceduto alla designazione di Bangladesh ed Egitto come Paesi d’origine sicuri, contiene tuttavia elementi critici e di debolezza. Facendo ampio affidamento a fonti attiviste come Amnesty o Human Rights Watch, dichiara un amplissimo ventaglio d’eccezioni di categoria. Nel caso del Bangladesh vi sono sostanzialmente tutte le donne (quindi il 50% della popolazione, 85 milioni di persone), più le minoranze etnico-religiose (il 10% della popolazione, 17 milioni di persone), più i vari orientamenti sessuali “LGBTQI+”, presumibilmente non molto diffusi in Bangladesh, ma che possono essere più facilmente simulati, rispetto ad un’origine etnica, per cercare di ottenere fraudolentemente la protezione internazionale.

Circoscrivere maggiormente queste eccezioni avrebbe certo aiutato a non offrire pretesti per coloro che vogliono minare la designazione a Paese sicuro.

Conclusioni

La sentenza della sezione specializzata del Tribunale di Roma è chiaramente anomala e ben poco convincente nelle sue argomentazioni. Si comprende perciò perché molti abbiano polemizzato, ritenendo di vedervi un’ingerenza ideologicamente motivata, da parte di settori giudiziari attivisti e politicizzati.

Tuttavia, per i ben noti problemi che affliggono la giustizia italiana, tale sentenza è sufficiente a porre una pietra d’inciampo nel percorso dell’Italia verso la messa in sicurezza dei confini – con rischio pressoché nullo, per i giudici che l’hanno firmata, di trovarsi mai a rispondere di eventuali errori, negligenze o abusi dei propri uffici.

In attesa che si ponga rimedio ai problemi strutturali del nostro sistema giudiziario, tramite una riforma ampia e incisiva attesa da decenni e purtroppo non ancora all’orizzonte, il Governo potrà attuare altre contromisure.

Già è annunciato come imminente un intervento legislativo che renderà la designazione dei Paesi sicuri norma primaria e non più secondaria.

Il Ministero degli Esteri dovrebbe prestare più attenzione alle schede Paese sulla cui base si dovranno designare quelli sicuri, di modo da rendere la designazione meno attaccabile.

Tuttavia, rimane un altro problema strutturale, che è quello relativo alle leggi nazionali, europee e internazionali che sono oggi decisamente sbilanciate verso i diritti del migrante, anche clandestino, rispetto a quelli dello Stato d’arrivo. Il Governo dovrebbe passare in rassegna i vari trattati e dichiarazioni internazionali siglati, ritirandosi laddove possibile da quelli che limitano il raggio d’azione dello Stato. In ambito nazionale come in quello europeo il Governo dovrebbe promuovere modifiche legislative che ristabiliscano l’equilibrio, laddove invece la legislazione europea si è in genere spostata nel senso di ostacolare la difesa dei confini da parte degli Stati.

Nel frattempo, un modo per aggirare i pesanti vincoli cui sono sottoposte le istituzioni democratiche italiane è quello di rafforzare la cooperazione coi Paesi di transito e d’origine dei flussi migratori, affinché essi siano bloccati prima di entrare in Italia o essere intercettati dalle nostre forze armate o dell’ordine.

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Fondatore e Presidente del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Scienze storiche (Università degli Studi di Milano) e Dottore di ricerca in Studi politici (Università Sapienza), è docente di "Storia e dottrina del jihadismo" presso l'Università Marconi e di "Geopolitica del Medio Oriente" presso l'Università Cusano, dove in passato ha insegnato anche in merito all'estremismo islamico.

Dal 2018 al 2019 è stato Consigliere speciale su immigrazione e terrorismo del Sottosegretario agli Affari Esteri Guglielmo Picchi; successivamente ha svolto il ruolo di capo della segreteria tecnica del Presidente della Delegazione parlamentare presso l'InCE (Iniziativa Centro-Europea).

Autore di vari libri, tra cui Immigrazione: le ragioni dei populisti, che è stato tradotto anche in ungherese.