Nella società globalizzata, la Storia è diventata un ospite inquietante. Inquietante in modo specifico per l’Occidente che, dilaniato dalla propria follia autodissolvente (frutto maturo del paradigma egualitarista cristiano), ambisce a fare tabula rasa del proprio ingombrante e impresentabile, ai suoi occhi, passato storico. Se per gli antichi, per la mentalità greco-romana ma anche presso altre civiltà, la Storia è autorappresentazione di sé, della propria volontà di affermazione, della propria ambizione, della propria cultura specifica, per gli occidentali la Storia è la rappresentazione dei propri “peccati”, che vanno espiati rinnegando i traguardi raggiunti, le vette faticosamente conquistate, i sacrifici sostenuti di generazione in generazione.

La Storia occidentale, quindi, reinterpretata e narrata come una serie di nefandezze, di brama di conquista, di atrocità, di errori; in una parola, la Storia analizzata secondo princìpi morali. Presso altre culture non si assiste a nulla di tutto ciò. Una civiltà sana pone la propria autorappresentazione storica come una necessità primaria, accanto a quelle fisiologiche, perché sa, o meglio intuisce, che senza una Storia, personale e collettiva, l’essere umano è degradato al rango di animale. Se c’è qualcosa che differenzia gli uomini dagli animali, oltre al linguaggio, è proprio la capacità dell’essere umano di narrare, di auto-narrarsi, attraverso miti, leggende, racconti, costruendo così una rappresentazione, allo stesso tempo simbolica e concreta, del proprio carattere, del proprio esserci nel mondo, del proprio senso esistenziale.

Al contrario, il glomondo attuale teme la Storia; ne teme la diversità irriducibile, in quanto ogni Storia è diversa e non sovrapponibile con altre; ne teme la memoria, a cui imputa la conflittualità tra le culture, perché l’uomo globalizzato non può essere sradicato facilmente se è ricollegato a un territorio, a uno spazio geo-storico da generazioni. Ne teme la persistenza perché la Storia, al contrario di quanto ritiene il paradigma progressista, non è un’interminabile sequenza di segmenti, scaturenti ab nihilo da una creazione divina (giudaico-cristiana, islamica o di altro tipo) e tendenti ad quem verso la sua estinzione (“fine della Storia”) ma una ricorrente e sempre iniziabile sfera che mette in dialogo micro-cosmo e macro-cosmo.

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Avere una Storia, per una civiltà e per un essere umano che di quella civiltà fa parte, significa appartenere e sentirsi legato alla Terra, con i suoi confini, sacri, e perciò né aperti al Fratello globale né ermeticamente sigillati come nelle regressive comunità isolate da tutto. Per la globalizzazione egualitarista ciò rappresenta un problema. Il cittadino globale, consumatore realizzato e multiculturalista per convinzione o per nascita, fanatico assertore del libero mercato e della sua presunta mano invisibile, senza Storia perché essa è retaggio degli incivili e dei primitivi, entusiasta supporter della società aperta che macina e inghiotte culture, lingua e territori, prova “scandalo” di fronte al riemergere della Storia. Ecco quindi moltiplicarsi gli sforzi per renderla quantomeno “innocua”, degradandola a divulgazione oppure incolpandola di ogni male.

Nel glomondo l’attaccamento a un suolo, a una cultura, a una Storia, è considerato patologico, morboso, “incestuoso” (come scrisse molti anni fa Erich Fromm). La società aperta esige il dissolvimento storico perché interpreta la Storia come una caduta, come un’idolatria imperdonabile, come il peccato originale per antonomasia. La società aperta, variante secolare dell’ideologia biblica, intende allora redimere le umanità dai loro vissuti storici particolari (etichettati con disprezzo come particolaristici) poiché solo in questo modo l’utopia, di volta in volta definita come società senza classi o capitalismo universale o ancora democrazia planetaria, del mondo finalmente pacificato e pacifico potrà dirsi inverata. Solo allora l’uomo potrà essere riassorbito in un tempo senza inizio e senza fine, regredendo all’innocenza, o meglio all’incoscienza, delle tribù del paleolitico.

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Abyssus, pseudonimo, è un professionista che opera nel settore culturale ed editoriale italiano.