Donald Trump è stato assolto nel processo di impeachment al Senato da entrambi i capi di imputazione che i democratici avevano presentato: abuso di potere e intralcio al Congresso. L’esito era abbastanza prevedibile, a partire dal fatto che – per arrivare a un verdetto di colpevolezza – fossero necessari i due terzi dei voti: una soglia difficilissima da raggiungere, non foss’altro perché la camera alta è attualmente a maggioranza repubblicana. Tuttavia l’assoluzione del presidente non si spiega soltanto in termini di matematica parlamentare, in quanto l’intero processo di impeachment è stato caratterizzato da elementi che ne hanno determinato una certa inconsistenza.

In primo luogo, troviamo la tempistica. Temendo sovrapposizioni con le primarie democratiche, l’Asinello ha accelerato i tempi nella conduzione dell’indagine per impeachment: un’indagine che fu avviata da Nancy Pelosi, lo scorso settembre, senza un voto in plenaria della Camera e senza attendere neppure che fosse diffusa la trascrizione della telefonata incriminata tra Trump e il suo omologo ucraino, Volodymyr Zelenksy. Inoltre, per quanto l’impianto accusatorio abbia mostrato non poche falle nei mesi successivi, i democratici – anziché prendersi più tempo per le necessarie verifiche – hanno preferito tirare dritto. In secondo luogo, non bisogna dimenticare che, contrariamente alle indagini per impeachment condotte contro Richard Nixon nel 1974 e Bill Clinton nel 1998, in quella contro Trump al partito d’opposizione non è stato garantito un ruolo paritetico, visto che i repubblicani erano costretti a ottenere il benestare dei democratici per convocare i propri testimoni. Inoltre – differentemente ai casi del 1974 e del 1998 – stavolta l’indagine per impeachment non si è basata su un rapporto elaborato da un procuratore speciale ma su un documento interamente redatto dal partito opposto a quello di cui il presidente-imputato fa parte. Tutti questi elementi hanno alimentato il sospetto di partigianeria nei confronti dell’Asinello.

In terzo luogo, se ai tempi di Nixon e Clinton era stata reperita la cosiddetta “pistola fumante”, non si può dire altrettanto nel caso di Trump. Le lunghe e numerose audizioni condotte dalla Camera in autunno non sono riuscite a provare in modo irrefutabile che il presidente americano avesse ordinato di ricattare Zelensky per danneggiare il proprio rivale elettorale, Joe Biden. È pur vero che i democratici avevano chiesto di ascoltare al Senato l’ex consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, che – in base a un manoscritto recentemente pubblicato dal “New York Times” – avrebbe sostenuto che Trump fosse pienamente coinvolto in questa pressione ricattatoria per conseguirne vantaggi personali. Ciò detto, non bisogna neppure dimenticare che Bolton è stato silurato dal presidente lo scorso settembre e che i due si siano trovati ripetutamente ai ferri corti su molti dossier di politica estera. Insomma, è difficile ritenere che Bolton come testimone avrebbe potuto rivelarsi autenticamente sopra le parti. A chi poi sostiene che i senatori repubblicani abbiano impedito quella testimonianza per coprire le malefatte di Trump andrebbe ricordato che – lo scorso novembre – il presidente della Commissione Intelligence alla Camera, il democratico Adam Schiff, ha bloccato l’audizione, richiesta dall’Elefantino, del figlio di Biden, Hunter.

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In quarto luogo, troviamo il problema dei capi d’imputazione. Non solo l’abuso di potere non è citato nella Costituzione ma – anche qualora fosse stato inequivocabilmente dimostrato ciò di cui Trump era accusato – non si sarebbero configurati comunque comportamenti penalmente rilevanti. Non è una novità che – secondo alcuni giuristi – il processo di impeachment (attenendo al potere legislativo e non a quello giudiziario) non necessiterebbe di reati penali. Tuttavia, rinunciando a un riscontro oggettivo, la messa in stato d’accusa rischia seriamente di trasformarsi in una mera arma di natura politica. È esattamente in questo senso che l’avvocato di Trump, Alan Dershowitz, ha affermato che l’ultimo impeachment si è rivelato nei fatti un voto di sfiducia: voto di sfiducia che tuttavia la Costituzione americana non prevede.

Da tutto questo, si comprende come la matematica parlamentare costituisca solo una delle ragioni che spiegano il naufragio di questo processo: un processo istruito frettolosamente e seguendo dei criteri dall’equità abbastanza dubbia. Sembrerebbe che i democratici vogliano comunque proseguire con le loro indagini contro il presidente, anche se non è chiaro dove una simile linea possa condurli: soprattutto alla luce del disastro organizzativo, verificatosi con il caucus dell’Iowa lo scorso lunedì. Il Partito Democratico appare oggi più diviso che mai. E, anziché compattare, l’anti-trumpismo fine a sé stesso rischia di rendere ancora più vivide le faide intestine.


Stefano Graziosi è Ricercatore del Centro Studi Machiavelli.