Che la gestione della tragica emergenza Coronavirus sia stata del tutto negligente, soprattutto sul piano comunicativo, è sotto gli occhi di tutti.
Ammettiamolo: il cartello “Abbraccia un cinese” imbracciato dal sindaco di Firenze Nardella poco più di un mese fa; l’impietoso epiteto di “fascioleghisti” affibbiato dal governatore della Toscana Rossi a chi chiedeva prudentemente misure contenitive a carico di chi fosse di ritorno dalla Cina; la campagna #milanononsiferma lanciata in gran pompa dal sindaco Sala a fine febbraio; i vari involtini primavera mangiati in diretta da giornalisti e personaggi pubblici; nonché – ciliegina sulla torta – la pubblicità del Ministero della Salute in cui un noto presentatore, con in mano un paio di bacchette di bambù, sosteneva che il contagio da Covid-19 non fosse “affatto facile” – tutti questi esempi non sono proprio invecchiati benissimo. Per non parlare, poi, della situazione paradossale in cui è finito per trovarsi lo stesso Zingaretti, che il 2 febbraio invitava la popolazione sui social a non perdere “le nostre abitudini” e a uscire “a bere un aperitivo, un caffè o per mangiare una pizza”, salvo poi dover dichiarare pochi giorni più tardi di essere stato anch’egli contagiato dal Coronavirus.
Verrebbe forse da ridere, se non ci fosse da piangere; per almeno un mese, il messaggio insistentemente mandato alla popolazione è stato un semplice: “Non avete nulla da temere, è solo una banale influenza”. La ripetizione costante, a reti unificate, di rassicurazioni che già allora apparivano chiaramente infondate alla luce delle evidenze scientifiche disponibili non pone, però, soltanto un problema politico, ma anche un’enorme questione giuridica: possono essere considerati penalmente responsabili coloro che, con il proprio comportamento irresponsabile, hanno indotto migliaia di persone a sottovalutare la crisi sanitaria in corso?
Ovviamente, senza che le autorità competenti svolgano indagini approfondite, è impossibile dare una risposta definitiva; quello che è certo, però, è che in un’analoga situazione è stato chiaramente affermato il principio per cui chi, in ragione del ruolo ricoperto, è tenuto a fornire informazioni alla pubblica opinione circa la previsione, l’entità o la natura di eventi rischiosi per la pubblica incolumità, deve svolgere il proprio ruolo in maniera corretta e trasparente e, se negligentemente minimizza il rischio, risponde delle conseguenze lesive derivanti dalla propria condotta.
Si tratta del celebre processo sul terremoto dell’Aquila che – malamente raccontato dalla stampa come un “processo alla scienza” in cui agli scienziati veniva rimproverata la mancata previsione di un terremoto – aveva in realtà ad oggetto proprio le comunicazioni dal tenore “tranquillizzante” rilasciate dai componenti della commissione “Grandi rischi” a diversi organi di stampa, che – a dire dell’accusa – avevano indotto numerosi residenti a non uscire di casa in caso di scosse; con la nefasta conseguenza per cui le vittime, rassicurate dalle indicazioni ricevute dagli organi competenti, sceglievano di rimanere nelle proprie abitazioni anche nella notte del vero terremoto, finendo così per essere travolte dalle macerie.
Il processo si concludeva nel 2015, con la conferma definitiva della condanna per omicidio colposo plurimo dell’allora vicepresidente della Protezione civile, che, nel corso di un’intervista presso una televisione locale, seppur in un contesto di sostanziale incertezza scientifica, aveva convintamente affermato che la situazione era del tutto normale e priva di rischi, invitando anzi la cittadinanza aquilana a farsi un bel bicchiere di vino; un’intervista i cui contenuti erano a ragione ritenuti dalla Corte di cassazione eccessivamente – e, dunque, negligentemente – rassicuranti.
Viene, dunque, spontaneamente e malignamente da chiedersi se lo stesso principio, posto alla base della condanna di un vertice della Protezione civile soltanto qualche anno fa, sarà riesumato quando si tratterà di valutare la rilevanza penale delle numerose dichiarazioni “tranquillizzanti” di politici e amministratori di spicco delle ultime settimane o se, invece, le Procure decideranno prudentemente di dimenticarsene.
Repetita Iuvant (pseudonimo) è un ricercatore accademico di scienze giuridiche.
Pseudonimo. Ricercatore accademico di scienze giuridiche.
Il solito “volemose bene all’italiana” non voler offendere nessuno, sempre sottomessi al giudizio altrui perché incapaci di farci rispettare