di Repetita Iuvant

Poco più di una settimana fa, la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati ha licenziato il testo definitivo della proposta di legge Boldrini-Zan “in materia di violenza o discriminazione per motivi di orientamento sessuale o identità di genere”.

E pluribus, gli estensori del disegno di legge suggeriscono di dilatare l’ambito di applicazione dei delitti di “discriminazione o istigazione alla discriminazione” (art. 604 bis co. 1 lett. a c.p.) e di “partecipazione o organizzazione di associazioni finalizzate all’istigazione alla discriminazione” (art. 604 bis co. 2 c.p.), sanzionando così non soltanto il compimento di atti discriminatori o di istigazione alla discriminazione “per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”, ma anche per motivi “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”.

La proposta ha, comprensibilmente, suscitato una levata di scudi dal fronte conservatore; tuttavia, anche al di là dalle critiche di natura squisitamente politica, il testo approvato dalla Commissione dovrebbe spaventare qualsiasi giurista dotato di un briciolo di senso critico.

Se la modifica venisse approvata, infatti, il nuovo art. 604 bis co. 1 lett. a) consentirebbe di punire con la pena principale della reclusione fino a un anno e sei mesi, e con la pena accessoria del divieto di partecipare, in qualsiasi forma, ad attività di propaganda elettorale (art. 1 co. 1 bis d.l. 26 aprile 1993, n. 122), chiunque istighi a commettere o commetta “atti di discriminazione” per motivi “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”.

Ma cos’è un “atto di discriminazione”? Se, come appare evidente, discriminazione è o può essere, almeno in linea di principio, ogni trattamento diseguale fondato su un motivo “vietato” (sesso, genere, identità di genere, ecc.), non ci vuole moltissimo per accorgersi della vaghezza, potenzialmente dirompente, del nuovo testo di legge.

Il presidente di una società sportiva femminile che rifiuta l’iscrizione di un soggetto di sesso maschile commette un atto di discriminazione fondato sul “sesso”? Se un seminario rifiuta la candidatura di una donna che intende farsi presbitero, il responsabile commette il reato di “discriminazione”? E il seminario stesso, se rifiuta sistematicamente l’iscrizione di persone di sesso femminile, deve considerarsi associazione finalizzata all’istigazione alla discriminazione e, dunque, vietata ai sensi dell’art. 604 bis co. 2 c.p.?

E ancora: se il proprietario di un locale rifiuta l’accesso alle toilette femminili di un soggetto biologicamente maschio, che però si considera donna, commette un “atto discriminatorio” fondato sulla “identità di genere”? Se un’estetista si rifiuta di effettuare una depilazione integrale delle zone genitali di un soggetto transessuale, deve essere tratta in giudizio e condannata per aver discriminato tra donne “in senso biologico” e donne “putative”?

Senza dimenticare, poi, che la vaghezza del concetto di “discriminazione” riverberebbe, inevitabilmente, sulla vaghezza del concetto di “istigazione” alla discriminazione.

Se un ragazzo sconsiglia ad un amico di avere rapporti omosessuali (o, volendo, eterosessuali), sta istigando alla discriminazione sulla base dello “orientamento sessuale”? Se un personaggio pubblico manifesta la sua contrarietà all’idea di condividere uno spogliatoio femminile con un uomo che si identifica come donna, sta istigando alla discriminazione? Se, in futuro, un politico dovesse fare una campagna pubblica, magari vigorosa, per l’abrogazione della futura “legge Boldrini-Zan”, starebbe istigando alla discriminazione in re ipsa?

Si penserà, arrivati a questo punto, che le nostre preoccupazioni sono di certo esagerate: in fondo, con riferimento alle altre possibili forme di discriminazione – quelle fondate su motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, già vietate dalla norma che si vuole ora imprudentemente ampliare – il reato di “discriminazione” non ha forse finora dato buona prova? Se il problema risiede nella vaghezza del concetto di “discriminazione”, perché in passato non sono sorte questioni?

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Il punto, a nostro avviso, è che tra le “vecchie” e le “nuove” discriminazioni vi è una significativa differenza.

Mentre, infatti, c’è un sostanziale “accordo sociale” in merito alle discriminazioni fondate su etnia, nazionalità e religione, che si ritengono generalmente vietate, e, pertanto, non v’è da stupirsi se l’intendimento della norma – nei rarissimi casi dove è stata applicata – non abbia destato grandi controversie, lo stesso non può dirsi del dibattito pubblico in tema di “genere e identità di genere”, ove il mare è decisamente più agitato.

Numerosi “trattamenti diseguali” fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere, pur essendo accettati o addirittura socialmente desiderati dalla maggioranza della popolazione, vengono infatti duramente contestati da una minoranza intollerante ed estremamente rumorosa. Se si dovesse scegliere un esempio fra i tanti, basti pensare alla rigida divisione tra sessi biologici nelle competizioni sportive o ai numerosi “trattamenti diseguali”, riconducibili al comune senso del pudore e della riservatezza, che sono esplicitamente denunciati come “discriminatori” dall’agguerrita minoranza di cui si è detto.

In questo contesto storico-politico, la proposta di legge Boldrini-Zan suona quindi come un tentativo di imporre una determinata visione ideologica “a colpi di manette”; un tentativo in tanto più pericoloso e maldestro, in quanto gli estensori si limitano a evocare un generico divieto di “atti di discriminazione”, consegnando così di fatto alla magistratura il delicato compito di determinare cosa sia una discriminazione fondata sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere.

Sarà dunque, per l’ennesima volta, la magistratura ad essere investita del potere di intervenire a gamba tesa in un ambito in cui non vi è (ancora) stabile consenso sociale. E potrà farlo non soltanto mediante l’inflizione di pene detentive, ma anche mediante l’imposizione al condannato per il reato di cui all’art. 604 bis c.p. di un inquietante divieto di partecipare a qualunque attività di propaganda elettorale – ivi compresi comizi, volantinaggi, interventi sui social network, ecc. – per un tempo comunque non inferiore a tre anni; un periodo, in altri termini, probabilmente sufficiente a demolire qualsiasi carriera politica.

Certo, potrà oggi anche far sorridere l’idea che, domani, un’estetista possa essere rinviata a giudizio per rispondere del rifiuto a effettuare una ceretta ad un transessuale. O che un politico conservatore, che sostenga con forza la legittimità di talune forme di discriminazione fondate sulla distinzione tra sesso biologico e genere “auto-attribuito”, possa essere condannato per istigazione alla discriminazione e, così, ridotto al silenzio elettorale.

Eppure, non avrebbe fatto ugualmente sorridere, soltanto qualche anno fa, l’idea che un Ministro dell’Interno potesse essere indagato addirittura per il delitto di sequestro di persona a scopo di coazione (art. 289 ter c.p.) – punito con la reclusione fino a trent’anni – semplicemente per aver ritardato di qualche ora lo sbarco di stranieri irregolari sul territorio italiano?

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Pseudonimo. Ricercatore accademico di scienze giuridiche.