Nazione Futura” ha pubblicato la seguente recensione di Alfonso Piscitelli a Trump vs. everyone. America (and the West) at the crossroads, nuovo libro della collana “Machiavellica” scritto da Stefano Graziosi e Daniele Scalea.

 

Ormai su Donald Trump e sulla sua ultima grande sfida si è già detto tutto, a vari livelli di profondità. Un libro che riguardi le elezioni americane e cerchi di sviluppare un ragionamento plausibile sugli scenari che si apriranno dopo il 3 novembre ha un senso soltanto se introduce elementi non scontati nella narrazione. È proprio questo il caso del saggio di Stefano Graziosi e Daniele Scalea Trump contro tutti. L’America (e l’Occidente) al bivio pubblicato dalle edizioni Historica, con la prefazione di Daniele Capezzone.

Una prima precisazione importante riguarda la trasversalità dell’elettorato di Trump e soprattutto il fatto che non sia  il frutto di una alchimia elettorale inedita: il tycoon “è riuscito a conquistare il voto degli evangelici bianchi (storicamente repubblicani) e degli operai impoveriti della Rust Belt (tradizionalmente democratici): il tutto secondo una dinamica che, nel 1980, aveva prodotto il curioso fenomeno dei democratici reaganiani”, da questa considerazione si evince una significativa linea di continuità tra Reagan e Trump, che peraltro risulta evidente dalle linee generali di politica economica. Si tratta di capire se alle elezioni di novembre questo rassemblement tornerà ad essere maggioritario o se il covid prima e le proteste ispirate alla narrazione dei Black Lives Matter poi avrà eroso parti importanti di consenso al “blocco sociale”.

Mentre Trump cerca di interpretare le esigenze dei ceti produttivi al di là dei vecchi steccati ideologici, il Partito Democratico – notano gli autori – “sta vivendo un’importante mutazione. Dopo la stagione reaganiana era emerso più centrista e conservatore: Bill Clinton era un presidente “legge e ordine” e sostenitore di uno Stato, se non “minimo”, poco ingerente. L’ondata del nuovo progressismo politicamente corretto sta ricambiando il volto del Partito”. Se il vecchio Sanders si batte per l’importazione di un modello assistenzialista in stile vecchia socialdemocrazia europea (un modello peraltro di quasi utopica attuazione nel contesto americano), sul versante dei nuovi quadri dirigenti emergono “le deputate estremiste che criticano in maniera radicale la società americana, giudicata iniqua e razzista”.

Formalmente Biden è contrario a certi eccessi dell’ideologia politicamente corretta, ma nei fatti, deve scendere a compromessi, come nel caso della scelta della candidata vicepresidente: la senatrice indo-giamaicana Kamala Harris. Scalea e Graziosi sostengono che “la senatrice difficilmente potrà rivelarsi una figura attrattiva per la classe operaia della Rust Belt… (con le sue) tesi immigrazioniste e ambientaliste piuttosto rigide”. Peraltro la stessa Harris quando è toccato a Biden fare il suo giro sul carretto della gogna ha dichiarato di credere alle donne che avevano accusato il candidato democratico di molestie sessuali (in particolare la sua ex assistente Tara Reade), e lo ha addirittura tacciato di pregresse connivenze con il segregazionismo razziale. Il totalitarismo politicamente corretto, come il suo antecedente storico giacobino, è evidentemente una rivoluzione che divora i suoi figli.

La libertà dal conformismo politically correct consente viceversa agli autori di Trump contro tutti di fornire dati che difficilmente ascolteremo nei notiziari di informazione più attenti all’etichetta. Significativi quelli che riguardano la questione “razziale”. Approfondendo le vicende del Black Lives Matter Graziosi e Scalea sottolineano: “non bisogna trascurare che, secondo il Dipartimento di giustizia, nel 2018 i neri (che costituiscono circa il 12% della popolazione americana) siano risultati responsabili di oltre la metà degli omicidi e delle rapine commessi negli Stati Uniti a livello nazionale”. A volte le proteste “antirazziste” generano un paradossale effetto di violenza che si ritorce proprio contro i soggetti che in teoria si vorrebbe difendere: “è il famoso “effetto Ferguson”, dal nome della città del Missouri in cui, nell’agosto 2014, il diciottenne Michael Brown fu ucciso da un poliziotto bianco. Quest’ultimo agì per auto-difesa, come ha poi stabilito il processo, ma inizialmente il racconto mediatico additò il caso come razzismo e si verificarono tumulti in varie città. I poliziotti, per reazione, si mostrarono più restii a entrare nei quartieri popolati da neri: il risultato fu un aumento di criminalità e sparatorie, che tra 2015 e 2016 fecero registrare 2000 vittime afro-americane in più rispetto al biennio precedente”.

E tuttavia non basta dire che la narrazione sulle violenze etniche in America è una narrazione “tossica” nel momento in cui cerca di imprigionare Trump nel ruolo di capro espiatorio. Detto questo bisogna anche aggiungere che, se non si vuole soffocare il dibattito politico, i repubblicani devono fare attenzione a certi tendenze demografiche. Lo specificano bene i due autori di Trump contro tutti: “La questione si fa di primaria importanza perché un’ampia fetta di immigrati (legali e illegali) non solo ingrossa il bottino delle roccaforti democratiche, ma in ampia misura le rende tali. I distretti con più stranieri sono quelli più inclini a votare per l’Asinello. Da tempo quest’ultimo accarezza il sogno di ribaltare anche il Texas, architrave del Red Wall repubblicano, dove, grazie al costante aumento di abitanti ispanici o comunque d’origine straniera (quasi il 40% dei texani non parla l’inglese come prima lingua), il gap tra i due partiti si va sempre più assottigliando: se lo Stato della stella solitaria dovesse unirsi a California e New York, questi tre da soli garantirebbero al Partito democratico la metà dei grandi elettori necessari ad avere la maggioranza, rendendo impresa improba ai repubblicani tornare ad eleggere un presidente”. La consapevolezza dell’esistenza di questo piano inclinato storico implica da un lato la condivisione – anche da parte degli ambienti repubblicani più inclini ad assecondare le parole d’ordine dei liberal – della politica di controllo dei flussi migratori di Trump, dall’altro la chiara volontà di combattere una coraggiosa battaglia culturale per i valori, per impedire che gli slogan politici della parte più radicale del Partito Democratico divengano imperativi categorici dell’intera società americana del XXI secolo. E questa è una battaglia che trova in Donald Trump un significativo alfiere e nello stesso tempo va anche al di là della sua stupefacente avventura personale.

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