di Daniele Scalea

Il consulente del riconfermato ministro della Salute Roberto Speranza, Walter Ricciardi, è tornato nuovamente all’attacco invocando un lockdown totale. Come sempre, troverà i suoi sostenitori: sebbene l’entusiasmo dei chiusuristi stia scemando, a ormai un anno dall’inizio dell’emergenza, secondo i sondaggi sono ancora moltissimi gli italiani che chiedono restrizioni ancora più severe di quelle già in vigore. L’arrivo di “varianti” esotiche del virus dà nuovo impeto a simili richieste.

Una prima osservazione generale: quest’epidemia è stata affrontata in maniera emotiva e semplicistica. Da tutti: governanti, media, scienziati e opinione pubblica.

I governanti non sono stati in grado di valutare freddamente la situazione e prendere scelte ponderate: dall’iniziale minimizzazione si è passati repentinamente a una gestione degna di un’Apocalisse, più che a quella di un’epidemia grave ma non così diversa dall’influenza asiatica del 1957-57 o da quella di Hong Kong del 1968-69, anni in cui non si ricordano né lockdown, né tanto meno una fissazione monotematica del mondo intero sulla virologia.

I giornalisti hanno giocato sul sensazionalismo, per massimizzare ascolti e vendite, terrorizzando la popolazione e solleticandone tutti gli aspetti più emotivi ed irrazionali. Gli scienziati, soprattutto quelli da salotto televisivo, non hanno aiutato granché a correggere tale tendenza: spesso si sono prestati in toto al teatrino televisivo e l’inattesa ribalta mediatica ha spinto alcuni a comportarsi come novelli Mosé, che tuonano contro il popolo forti di una conoscenza divina.

Le colpe di politici, giornalisti e scienziati, tuttavia, non esentano la pubblica opinione dalle sue responsabilità. La grande maggioranza della popolazione ha accettato, senza batter ciglio, che tutti quei diritti – la cui conquista tanta fatica e sofferenza costò ai nostri padri – fossero calpestati peggio che in periodo di dittatura (quando almeno uscire di casa o lavorare, per la generalità dei cittadini, era consentito); e ciò per proteggersi da una malattia il cui tasso di mortalità per infezione, nei minori di 70 anni, è stimato al di sotto dello 0,05%.

Sulla Covid-19 si è parlato tanto e ragionato poco. Il dibattito è stato iper-semplificato: quando iniziò il lockdown, lo scorso anno, tutti parlavano di “solo 14 giorni sul divano per risolvere il problema” (“mica come i nostri nonni che furono mandati in trincea!”): eppure già era uscito lo studio del Imperial College di Londra che stimava fossero necessari almeno un anno e mezzo di lockdown intermittente (il nostro blog fu tra i primi a darvi risalto).

Naturale è che la conoscenza scientifica di un fenomeno nuovo evolva, passando d’approssimazione in approssimazione verso la verità oggettiva: ma non possiamo dimenticare come, all’inizio del 2020, anche per i virologi più in vista la Covid fosse “poco più di un’influenza”, chi metteva mascherine trattato alla stregua d’un cretino, e il Governo Conte Bis vedeva l’emergenza solo nei ridotti affari dei ristoranti cinesi per colpa degli “italiani razzisti”. Il ministro Speranza produceva un tragicamente memorabile spot per comunicare alla popolazione che contagiarsi sarebbe stato difficilissimo. Ma, nel giro di qualche settimana, i medesimi protagonisti predicarono ed imposero un ferreo lockdown, la mascherina obbligatoria (oggi anche all’aperto), la narrativa della Covid come unico problema dell’umanità che totalizza il discorso e la quotidianità di ciascuno.

Sia chiaro: la Covid è un problema grave. Il picco di mortalità anomalo in Italia nell’inverno del 2020 è attestato nei dati, anche se in parte dovuto proprio a quell’esclusivo concentrarsi sulla Covid trascurando ogni altra cosa (facendo così che aumentasse la mortalità di altre patologie non più diagnosticate o adeguatamente trattate). Ennesima dimostrazione che subordinare la politica a tecnici di un’unica specializzazione è un errore: fu sbagliato nel 2011 quando s’appaltò la gestione della cosa pubblica agli economisti (Monti & Co. produssero disastri), è stato sbagliato nel 2020 coi virologi, incapaci di cogliere non solo le conseguenze sociali ed economiche delle loro ricette estreme, ma talvolta persino le implicazioni mediche al di fuori del proprio campo ristretto (la sopraccitata maggiore mortalità delle malattie trascurate dal sistema sanitario).

Una grossa parte del problema viene proprio dalla scelta del lockdown, rozza foglia di fico che nasconde la mancanza di interventi più raffinati, come ad esempio cure all’altezza: la mortalità altissima dell’inverno/primavera 2020 non si è registrata in questo ciclo autunnale-invernale, malgrado il virus sia più diffuso territorialmente. Oggi la mortalità è paragonabile al picco di gennaio 2017: quando, per inciso, nessuno invocò misure d’emergenza (e probabilmente nessuno di noi s’accorse di vivere in un periodo di mortalità assai sopra la media). Dimostrazione che il racconto influenza la percezione e la reazione agli eventi.

Si sono prese misure enormi, non sperimentate nemmeno sotto la dittatura o durante la guerra, e il tutto con grande naturalezza. Nessuno nega che diverse di tali misure fossero e siano giustificate e necessarie: io stesso criticai l’inazione del governo nella prima fase, quando negava o minimizzava il problema. Ma porre l’intera popolazione agli arresti domiciliari, bloccare molte attività produttive, impedire a incolpevoli cittadini di procacciarsi il sostentamento (senza rimborsarli ma dedicando loro piccoli “ristori”), è un’iniziativa senza precedenti che nemmeno la Cina aveva intrapreso (Pechino applicò una quarantena “classica”, per quanto in ampia scala, di una sola parte del territorio nazionale). L’Italia è stato il laboratorio di questo terribile esperimento sociale, ha dettato la linea al mondo: e di ciò recentemente Giuseppe Conte si è vantato in Parlamento.

Limitazioni così fondamentali delle libertà individuali e collettive sono giustificabili solo di fronte a emergenze gravissime e per periodi limitati. Quanto più le restrizioni sono gravi, tanto più vanno giustificate e limitate nel tempo. Fin da subito, invece, si è parlato di “nuova normalità”: l’eccezione tramutata in regola, l’emergenza promossa a quotidianità. Poteri forti hanno vagheggiato “grandi reset”. L’ex premier Enrico Letta a “Propaganda Live” ha detto che: “Non torneremo alla società del 2019. Ora per tutta la nostra vita dobbiamo adattarci, cambiare ed essere pronti al cambiamento”. Bisogna ribellarsi a queste idee. Un virus può rappresentare un’emergenza ma non giustificare un’opera di ingegneria sociale che cambi per sempre i nostri modelli antropologici, formatisi nell’arco di millenni, sostituendoli con “nuove normalità” imposte nel giro di mesi.

È necessario ribadire la libertà dell’individuo e come una società liberale debba appellarsi alla responsabilità di costui, prima di ricorrere a costrizioni. La china intrapresa è pericolosa: si può dunque conculcare la libertà del singolo per non farlo ammalare? Allora perché non proibire fumo, alcol, bevande zuccherate, imporre una dieta equilibrata e regolare esercizio fisico, vietare gli sport pericolosi, magari bandire gli automezzi per cancellare lo smog che uccide migliaia e migliaia di persone ogni anno? Anche queste abitudini sono spesso alla base della necessità di ricorrere alla terapia intensiva. Si può negare il diritto alle cure se ci si ammala perché si è stati “incauti” e le terapie intensive sono limitate? Allora lo stesso andrebbe fatto per chiunque abbia comportamenti “scorretti”. Chi auspica cose simile desidera che lo Stato si faccia giudice della vita privata.

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Si dirà: “Ma qui il caso è diverso perché tu, ammalandoti, potresti contagiare me”. Eppure non si possono trattare degli individui, liberi e sani, come meri potenziali vettori di virus e metterli preventivamente ai domiciliari. È giusto imporre misure di sicurezza nei luoghi pubblici ad alto rischio e in cui le persone sono costrette ad andare per soddisfare bisogni primari: mezzi pubblici, negozi, supermercati ecc. Per il resto, chi ha paura dei virus può chiudere sé stesso in casa, giammai imporre la clausura a tutti gli altri. È una mentalità perversa quella per cui oggi si ritiene che la propria rassicurazione conti più della libertà altrui (vedi la limitazione del free speech richiesta dai progressisti per non “offenderli”).

Le politiche del passato Governo, per giunta, sono state discriminatorie. Il peso della crisi è gravato tutto su alcune categorie: imprenditori, autonomi, precari. I dipendenti, soprattutto quelli pubblici, e i pensionati sono stati toccati poco o per nulla. Equità avrebbe imposto, in linea teorica, di garantire congrui rimborsi alle categorie colpite facendo leva su una redistribuzione del reddito di quanti non danneggiati dal lockdown, di modo che il suo costo pesasse equamente su ciascuno e sproporzionatamente su nessuno.

Lo Stato non può impedire a un cittadino di procurarsi i mezzi di sostentamento. Il padre (o la madre) di famiglia che fallisce e non sa come nutrire i figli è una tragedia non inferiore al decesso di un anziano con alcuni anni d’anticipo sulla speranza di vita (85 anni per le donne e 81 per gli uomini). Non si tratta di sminuire il valore degli ultimi anni di vita dei nostri padri e nonni ottantenni (80 anni è l’età media dei morti per Covid), ma di porre all’attenzione tragedie familiari che troppi minimizzano col mantra: “Tanto in Italia nessuno muore di fame” (lo andassero a dire ai tanti suicidatisi perché sul lastrico, a chi è finito letteralmente in mezzo a una strada, ai bambini che crescono nell’indigenza).

Il passato Governo ha scelto di provare a salvare gli individui più a rischio, e ha fatto indubbiamente bene. Il guaio è che, al di là di tutte le nostre moderne presunzioni di controllo assoluto, la coperta è corta e la strategia scelta ha imposto di sacrificare qualcun altro. Oltre alle già citate categorie, la grande vittima sacrificale è la generazione futura: per la perdita d’anni d’istruzione e socialità, e perché il lockdown e le misure restrittive sono arrivate al costo di un enorme indebitamento (dal 135% al 158% del Pil in un anno, e nel 2021 certo crescerà ancora). Già prima della Covid una parte sostanziosa del bilancio pubblico era destinata a pagare interessi e rimborsare debiti. I nostri figli pagheranno caro il lockdown dei genitori, e lo faranno sotto forma di più tasse, minori servizi, sanità più scadente o meno accessibile, minori opportunità di impiego pubblico e via dicendo. Puramente demagogico è fare, come tanti (a partire dal Prof. Avv. Giuseppe Conte), una gerarchia tra salute ed economia, come se quest’ultima riguardasse solo i guadagni extra di qualche avido Zio Paperone: l’economia è anche il sostentamento dei più poveri. Anzi, è soprattutto quello: perché sono i soggetti più deboli quelli che soffrono maggiormente i momenti di crisi , avendo meno risparmi per ammortizzare gli choc. La ricchezza è il principale fattore correlato alla salute (più si è poveri, prima si muore). Col lockdown muoiono più bambini e se ne procreano di meno e ci si sposa di meno: rappresentazione emblematica d’un popolo che rinuncia alla vita per paura della morte.

L’auspicio è che col novello Governo Draghi si abbandoni la linea emotiva, fondata sul terrorismo psicologico e fomentatrice di panico del duo Conte e Speranza, sebbene quest’ultimo sia stato incredibilmente riconfermato. La presenza nella maggioranza di Forza Italia e soprattutto della Lega, critica della linea chiusurista, potrà favorire un nuovo approccio, senza lockdown ma col tentativo di convivere col virus mentre si completa la campagna vaccinale. Bisognerà ridare dignità all’economia e al lavoro, attività essenziali per la vita. Bisognerà riconoscere le libertà individuali come sacrosante. Bisognerà abbandonare il latente sentimento di disprezzo verso imprenditori e autonomi, le tentazioni assistenzialiste e l’insidioso scivolare verso uno Stato autocratico e onnipotente da cui tutti dipendono (il famoso “modello cinese”).

Lo so: è troppo da chiedere al nuovo Governo, considerando anche che la maggioranza parlamentare propende verso la Sinistra sinofila e chiusurista e che la stessa opposizione in quest’anno non si è mostrata sufficientemente salda nella difesa dei diritti dei cittadini e dei lavoratori. Tuttavia, siamo convinti che almeno qualche passo nella giusta direzione si farà; e allora ne sarà valsa la pena di avere detto “Sì” a Mario Draghi.

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Fondatore e Presidente del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Scienze storiche (Università degli Studi di Milano) e Dottore di ricerca in Studi politici (Università Sapienza), è docente di "Storia e dottrina del jihadismo" presso l'Università Marconi e di "Geopolitica del Medio Oriente" presso l'Università Cusano, dove in passato ha insegnato anche in merito all'estremismo islamico.

Dal 2018 al 2019 è stato Consigliere speciale su immigrazione e terrorismo del Sottosegretario agli Affari Esteri Guglielmo Picchi; successivamente ha svolto il ruolo di capo della segreteria tecnica del Presidente della Delegazione parlamentare presso l'InCE (Iniziativa Centro-Europea).

Autore di vari libri, tra cui Immigrazione: le ragioni dei populisti, che è stato tradotto anche in ungherese.