di Stefano Graziosi

Donald Trump ha scelto l’ultima Conservative Political Action Conference (CPAC) per tornare in campo. L’ex presidente ha infatti tenuto in quell’occasione il suo primo discorso pubblico da quando ha lasciato la Casa Bianca. Un discorso significativo, che ha evidenziato la sua strategia politica per il futuro. Trump ha innanzitutto smentito le voci che lo volevano pronto a creare un nuovo partito: l’ex presidente ha in tal senso sottolineato la volontà di restare nell’Elefantino, mirando di fatto alla sua leadership. E, proprio per accreditarsi come leader del partito, ha scelto di muoversi su due linee complementari.

Ha in primo luogo duramente attaccato quei settori dell’establishment repubblicano che stanno cercando di liquidarlo: settori legati a figure come la deputata Liz Cheney o il senatore Mitt Romney. In secondo luogo, l’ex presidente si è mostrato particolarmente severo nei confronti di Joe Biden, mettendolo nel mirino su varie questione, dalla politica energetica all’immigrazione. È chiaro che, con le critiche al presidente in carica, Trump voglia ulteriormente accreditarsi come capo dell’opposizione. Più ambiguo si è invece mostrato sul suo futuro elettorale: pur non escludendo una ricandidatura alla nomination repubblicana del 2024, l’ex inquilino della Casa Bianca non ha effettivamente sciolto le riserve.

Quel che è dunque al momento chiaro è che Trump voglia ritagliarsi sempre più il ruolo di kingmaker e, in un certo senso, “coordinatore” del partito, esercitando tutto il proprio peso sulla linea programmatica e sulle candidature. Dall’altra parte, è probabile che – al momento – non abbia ancora ben chiaro il suo personale futuro elettorale. Un futuro che appare preda di una situazione ambigua. Indubbiamente Trump può contare sull’appoggio di una larga fetta della base repubblicana: fattore, questo, che gli conferisce preminenza nel partito ed energia per eventuali candidature (non solo alla nomination presidenziale, ma anche – chissà – al Senato per il 2022). Al contempo, sull’ex presidente pesano però anche svariate incognite: un’età avanzata, alcuni grattacapi giudiziari, la censura subìta sui social network.

Alla luce di tutto ciò, è quindi probabile che – al momento – Trump, pur non avendo ancora escluso una nuova avventura presidenziale, sia comunque alla ricerca di un successore: una figura, cioè, che sia in grado di ereditare il suo messaggio politico. In tal senso, all’ultima Conservative Political Action Conference si sono succeduti vari oratori che nutrono notoriamente ambizioni presidenziali e che, non a caso, hanno enfatizzato parecchio la propria affinità politica nei confronti dell’ex presidente: dal governatore della Florida, Ron DeSantis, ai senatori Ted Cruz, Josh Hawley, Rick Scott e Tom Cotton. Qualcuno già ipotizza, tra l’altro, un ticket costituito dallo stesso DeSantis e dalla governatrice del South Dakota, Kristi Noem. Non è comunque detto che l’ex presidente stia valutando esclusivamente dei nomi legati alla politica. Un’altra ipotesi di erede potrebbe infatti essere quella del popolare giornalista di “Fox News”, Tucker Carlson.

LEGGI ANCHE
Razzismo e anti-razzismo negli USA: ieri e oggi

Come che sia, la sfida che Trump si trova adesso ad affrontare è duplice. In primis, come detto, deve riuscire a riprendere in mano le redini del partito: un obiettivo indubbiamente alla sua portata, ma che dovrà comunque fare i conti con un’agguerrita fronda interna. Il secondo fronte di lotta è invece più complesso. La figura del “capo dell’opposizione” non è, per così dire, tipica dei partiti americani: partiti che storicamente hanno una struttura larga, che valorizza le differenze locali e che tradizionalmente si riunisce attorno a una singola figura soltanto in occasione della Convention nazionale ogni quattro anni. Il punto è che, stavolta, ci si trova in una situazione atipica (almeno stando agli ultimi sessant’anni di storia): quella cioè di un presidente sconfitto dopo il primo mandato che – differentemente dai casi di Jimmy Carter nel 1980 e di George H. W. Bush nel 1992 – non ha intenzione di abbandonare o anche solo di allontanarsi dalla scena politica. Lo stesso Gerald Ford – che pure accarezzò concretamente l’idea di ricandidarsi nel 1980 – non si rigettò nella mischia politica immediatamente dopo la sconfitta subìta nel 1976. La sfida di Trump, sotto questo aspetto, è quindi quella di coltivare una leadership che sappia al contempo far “respirare” il partito (valorizzandone le articolazioni) e tutelare gli aspetti migliori del suo lascito  (a partire dall’espansione della base repubblicana alla classe operaia e alle minoranze etniche).

+ post

Ricercatore del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Filosofia politica (Università Cattolica di Milano) con una tesi su Leo Strauss. Si occupa di politica internazionale collaborando con "La Verità" e "Panorama". Il suo ultimo libro è Trump contro tutti. L'America (e l'Occidente) al bivio (2020), scritto con Daniele Scalea.