di Fabio Bozzo

Con i suoi 207.000 chilometri quadrati di superficie, i quasi 9 milioni e mezzo di abitanti e, soprattutto, la posizione strategica (un grande crocevia tra Russia, Polonia, Ucraina e Paesi baltici), la Bielorussia, dopo Russia ed Ucraina, è per importanza il terzo erede di tre grandi fenomeni storici: l’Unione Sovietica, l’Impero zarista e, ancor più antica ed importante, la comunità dei popoli slavi orientali.

Certo l’economia non è di quelle che spostano gli equilibri geopolitici, in quanto il suo PIL nel 2019 equivaleva a circa 56.900 milioni di dollari. Per fare un raffronto nello stesso anno il PIL del Veneto era di circa 160.000 milioni di euro. Ciò non toglie che la Bielorussia, posta a metà strada tra Mosca e Varsavia, sia un fondamentale anello di congiunzione nelle geopolitiche russa ed europea (ammesso e non concesso che l’Unione Europea possieda un embrione di politica estera unitaria).

Diamo un breve sguardo al passato. Pur essendo religiosamente e linguisticamente affini alla Russia (al punto da essere spesso considerate un pezzo di Russia dal marcato regionalismo) le terre bielorusse, per varie ragioni storiche, furono per secoli un dominio dell’enorme ma poco coesa Corona polacco-lituana. Sarebbe stata l’imperatrice Caterina la Grande (1729-1796), con le tre Spartizioni della Polonia, a portare sotto il dominio russo tutta la Bielorussia e gran parte dell’Ucraina.

Un primo tentativo di indipendenza la Bielorussia lo produsse a seguito del crollo dell’impero zarista, nel 1918. Quell’anno venne proclamata la Repubblica Popolare Bielorussa, anche detta Repubblica Nazionale Bielorussa (nelle lingue slave i concetti di popolo e nazione sono tradotti con la stessa parola ed i suoi vari derivati). Si trattò, in ogni caso, di poco più che uno Stato vassallo della Germania imperiale. Con la sconfitta tedesca nella Prima Guerra Mondiale anche le acquisizioni in Europa orientale degli Imperi Centrali vennero annullate. In tale situazione la nuova Russia bolscevica guidata da Lenin invase e conquistò (o riconquistò, a seconda dei punti di vista) il giovane Stato. Solo la parte più occidentale del Paese non cadde sotto il comunismo, in quanto divenne parte della rinata Polonia a seguito della Guerra sovietico-polacca del 1919-1921. La prima indipendenza bielorussa era durata appena 9 mesi.

Occorre una piccola precisazione. Perché la secessione della Bielorussia dall’ex impero zarista fu molto più facile da riassorbire di quella dell’Ucraina? Perché nei secoli precedenti alla Prima Guerra Mondiale l’identità nazionale in Ucraina si sviluppò in modo molto più sentito dalla popolazione, per vari motivi storici ed etnolinguistici. Il grosso dei bielorussi, invece, allora come oggi era indeciso se identificarsi come una regione particolare della Russia o una distinta nazionalità.

I decenni che seguirono furono per la Bielorussia quelli di una tipica regione dell’impero sovietico, caratterizzati da carestie ricorrenti, terrore stalinista, industrializzazione forzata, orrori portati dai nazisti e, da Chruščëv in poi, un ritorno ad un livello di vita umanamente sopportabile, ma pur sempre soggetto alla dittatura comunista, fatta di povertà economica, squallore sociale, inefficienza amministrava, burocrazia elefantiaca e repressione violenta di qualsiasi dissenso. Curiosità: per tutta la durata dell’URSS la Bielorussia, insieme a Russia ed Ucraina, ebbe il privilegio di godere di un seggio con diritto di voto presso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Nel concreto tale condizione ottenuta da Stalin alla fine della Seconda Guerra Mondiale dava all’URSS tre voti invece di uno.

Prima di entrare nell’analisi della geopolitica dei giorni nostri è doveroso fare un accenno all’ultima delle troppe tragedie che hanno colpito la Bielorussia ed il suo popolo dal 1917 ad oggi: Chernobyl. Se infatti, come tutti sanno, la centrale in cui il 26 aprile 1986 avvenne il più grande incidente nucleare della storia si trova in Ucraina, le conseguenze peggiori del disastro furono patite proprio dalla Bielorussia, il cui confine si trova pochi chilometri a nord di Chernobyl. Poiché i venti tiravano verso settentrione il fallout nucleare, comprensivo di ceneri radioattive e di un’enorme quantità di radionuclidi, si riversò in gran parte sulla Bielorussia a sud di Minsk. Risulta impossibile fare una stima precisa dei deceduti: le più ottimiste parlano di 4.000 morti a seguito dell’incidente, le più tragiche di 60.000. Gran parte di queste morti si concentrarono tra la Bielorussia e l’Ucraina settentrionale. Innumerevoli anche gli aumenti di casi di cancro e di malformazioni fetali. Ad oggi le zone di esclusione totale, ovvero dichiarate off-limits per l’abitabilità umana a causa dell’eccessiva contaminazione radioattiva del territorio, si trovano per lo più in Bielorussia.

Con il crollo del regime comunista ed il disfacimento dell’Unione Sovietica la Bielorussia proclamò la sua indipendenza nel luglio 1991, ottenendo il completo distacco da Mosca nel dicembre dello stesso anno. Con la fine del comunismo la nuova dirigenza di Minsk cercò di costruire una vera democrazia. Malgrado la buona volontà il tentativo fallì in pochi anni. Delle repubbliche nate dal disfacimento dell’URSS la Bielorussia fu una di quelle che soffrì maggiormente dal punto di vista economico. In aggiunta a ciò la vecchia burocrazia statale sovietica, corrotta ed inefficiente, riuscì a mantenere i propri privilegi. Tutto questo vanificò i tentativi di costruire una nazione istituzionalmente evoluta. Conseguenza della situazione fu che nel 1994 le elezioni presidenziali furono vinte da un giovane candidato dichiaratamente nostalgico dell’epoca comunista: Aljaksandr Lukašėnka (1954-vivente), che nel 1990 era stato l’unico membro del Soviet bielorusso a votare contro lo scioglimento dell’Unione Sovietica. Ex militare, Lukašėnka vinse promettendo il pugno duro contro la corruzione di burocrati e dirigenti. In altre parole fu abile a scaricare le colpe della pesante eredità comunista sulla neonata fase riformista.

Una volta Presidente Lukašėnka attuò, bisogna riconoscerlo, una dura lotta alla corruzione. Allo stesso tempo, tuttavia, bloccò le privatizzazioni, nominò persone di sua fiducia in ogni organo direttivo politico ed economico, represse l’opposizione politica, trasformò il Parlamento in una sua personale aula comizi, isolò il Paese sul piano internazionale e lo fece tornare, de facto, un vassallo della Russia. In breve nel giro di pochi anni Lukašėnka è diventato un vero e proprio dittatore, che per mantenersi al potere ha costruito internamente un duro apparato repressivo, mentre in politica estera appoggia quasi incondizionatamente Mosca, in cambio dell’indispensabile sostegno economico che questa gli concede.

Tale storia politica post-sovietica presenta interessanti similitudini con quella della sorella maggiore russa, pur con le inevitabili differenze dovute alle diverse dimensioni dei due Paesi. Infatti in entrambi i casi il mondo ha assistito ad un’involuzione delle libertà democratiche, pur compensate in tutte e due le Nazioni da una stabilizzazione del caos post-sovietico e da un progressivo quanto insufficiente avanzamento economico e sociale. Non si può non notare un certo parallelismo tra il rapido collasso della giovanissima democrazia bielorussa e la più lunga era di Boris El’cin (1931-2007). Grazie a El’cin la Russia mise definitivamente nella pattumiera della Storia il passato comunista entrando nel novero delle Nazioni civilizzate, ma la sua Presidenza fu contrassegnata da crisi economiche quasi continue e dal progressivo decadimento fisico del suo inizialmente rampante ed eroico leader. In tale situazione lo scettro venne consegnato a Vladimir Putin (1952-vivente), che ha progressivamente trasformato la democrazia russa in un dominio personale che ricorda vagamente il dispotismo illuminato dei sovrani europei del ‘700.

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Nelle rispettive involuzioni autoritarie di Mosca e Minsk, tuttavia, non mancano nemmeno le differenze. Innanzitutto la democrazia russa creata da El’cin è durata circa dieci anni, un tempo sufficiente per mettere delle pur fragili radici nella società. Invece la fase liberale bielorussa s’è spenta sul nascere, senza quasi farsi notare da una popolazione troppo occupata a mettere insieme il pranzo con la cena. Inoltre da un lato Lukašėnka si è trasformato subito in un dittatore puro e semplice, sostenuto da una ridicola serie di referendum ed elezioni truccate oltre il farsesco e da un apparato di sicurezza che porta ancora arrogantemente il minaccioso nome di KGB. Putin dal canto suo, anche perché costretto da una società molto più complessa, ha sì costruito un suo sistema di potere personale che molti analisti seri definiscono dittatura, ma non ha mai rinnegato la fase elciniana, rendendo sempre onore ai meriti del suo predecessore. Inoltre l’opposizione russa, pur guardata a vista e spesso mortificata in modo criminale, mantiene una forza ed uno spazio di manovra sconosciuti nel feudo di Lukašėnka, che non a caso è l’ultimo Capo di Stato a rimpiangere dichiaratamente l’Unione Sovietica.

L’involuzione tirannica bielorussa è stata ad ogni modo abilmente sfruttata dal signore di Mosca. Le sempre maggiori difficoltà internazionali, unite alle crescenti contestazioni di piazza in patria, hanno costretto Lukašėnka a divenire totalmente dipendente dal sostegno russo, che in cambio ha ottenuto la trasformazione della Bielorussia in una dépandance del Cremlino. In tal modo il vassallo di Minsk può continuare a fare il satrapo nel suo feudo, ma a livello internazionale deve appoggiare incondizionatamente le decisioni di Putin ed accettare una progressiva integrazione, leggasi controllo, delle Forze Armate. In caso di eccessive pretese autonomiste da parte di Lukašėnka (che in passato non sono mancate) è sufficiente da parte russa qualche leggera ritorsione economica per rimettere a cuccia il cane da guardia del cancello occidentale moscovita.

Questa è la situazione attuale, che tuttavia non può durare in eterno. La Storia insegna infatti che le dittature, moderate o spietate che siano, hanno tutte una data di scadenza. La domanda è: finirà prima il dominio dell’attuale signore di Mosca o quello del satrapo di Minsk? A seconda delle due diverse possibili risposte si aprono differenti scenari. Proviamo ad esplorarli e a correre il rischio accademico di qualche previsione.

La situazione interna bielorussa, ai limiti della rivoluzione, sta rendendo Lukašėnka sempre più imbarazzante a livello internazionale, persino per uno stratega abile e con ben pochi scrupoli quale è Putin. Questo potrebbe indurre la leadership di Mosca a “convincere” Lukašėnka a rassegnare le dimissioni. In cambio di una rinuncia al potere il dittatore di Minsk otterrebbe un esilio dorato in Russia, una sorta di buen retiro con tanto di dacia, ogni genere di conforto e garanzia di impunità per tutti i reati, veri o presunti, commessi durante la dittatura. Tuttavia è utopico pensare che Mosca possa rinunciare senza contropartite ad uno Stato vassallo abitato da 9 milioni e mezzo di europei pressoché uguali ai russi, quindi facilmente assimilabili. La Russia, anche senza considerare l’importanza strategica del territorio bielorusso, soffre di una pericolosa crisi demografica, quindi difficilmente si farà sfuggire un boccone tanto consistente, cercando al contrario di attuare una sostanziale riannessione, magari abbellita con qualche forma più o meno teorica di autonomia federale.

Ma come potrà Putin far passare impunemente un tale banchetto geopolitico di fronte ad un Occidente (specie all’Europa orientale) che, a torto o a ragione, vede in ogni mossa russa l’espansionismo di una dittatura fascista? Con una parola: mercanteggiando. La merce di scambio non gli manca. Intanto potrà dichiarare d’aver costretto alle dimissioni “l’ultimo dittatore d’Europa”, sostituendolo con il proprio regime che, per quanto non certo democratico, è sicuramente meno tirannico di quello di Lukašėnka. Ma questo non basterà. Probabilmente Putin dovrà anche rinunciare a qualunque sostegno ai secessionisti russi dell’Ucraina orientale. Se Mosca consentirà a Kiev di riprendere il totale controllo sul Donbass e sul Lugansk allora la bilancia dell’offerta sarà abbastanza pesante da poter iniziare una trattativa per poter inglobare la Bielorussia.

In questa trattativa (che, detto senza malizia alcuna, sarà degna del Congresso di Vienna se non del Patto Molotov-Ribbentrop) la Russia avrà un indiretto ma potentissimo alleato: la Cina. Negli ultimi anni il Dragone giallo ha spinto troppo sul piano geopolitico, divenendo la principale minaccia all’attuale equilibrio mondiale. Poiché Pechino non mostra alcun desiderio di voler moderare il suo aggressivo assalto al potere planetario gli Stati Uniti (e di conseguenza il resto dell’Occidente) saranno ben disposti a concedere qualcosa alla Russia, in cambio di un suo ingresso più o meno organico nel fronte anti-cinese. Del resto la Storia, da Pietro il Grande alla meravigliosa conferenza del 2002 a Pratica di Mare, dimostra che la Russia soffre sì di imperialismo congenito, ma che di fronte alla scelta esistenziale, quella tra Occidente e Oriente, preferisce sempre l’Occidente.

Se invece sarà la semi-dittatura di Putin a finire prima di quella vera e propria di Lukašėnka? In tal caso chi scrive ritiene che, con la Russia concentrata nelle problematiche riguardanti la successione al potere, il despota bielorusso verrà rovesciato dal suo popolo nel giro di un anno. Tuttavia, a quel punto, i bielorussi non vedranno il grande vicino orientale come il Paese che, pur dopo averlo sostenuto, ha contribuito a pensionare il tiranno. Al contrario la Russia sarà percepita (giustamente) come la potenza straniera che fino alla fine ha permesso ad un despota odioso di fare il bello ed il cattivo tempo. Il risultato di tale percezione sarà che il Governo di Minsk nato dalle ceneri della dittatura attuerà un accelerato avvicinamento all’Occidente. In quest’operazione geopolitica i bielorussi riceverebbero il sostegno entusiasta di Polonia, Ucraina, Paesi baltici e degli altri Paesi un tempo soggiogati dal comunismo sovietico: tutti Stati che non vedono l’ora di allontanare la Russia dai propri confini.

In conclusione chi scrive ritiene che, alla luce dell’evolversi della situazione interna bielorussa e della necessaria unità della Civiltà europea di fronte alla minaccia cinese, sia la Russia stessa ad avere tutto l’interesse ad un cambio di leadership a Minsk.

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Laureato in Storia con indirizzo moderno e contemporaneo presso l'Università di Genova. Saggista, è autore di Ucraina in fiamme. Le radici di una crisi annunciata (2016), Dal Regno Unito alla Brexit (2017), Scosse d'assestamento. "Piccoli" conflitti dopo la Grande Guerra (2020) e Da Pontida a Roma. Storia della Lega (2020, con prefazione di Matteo Salvini).