di Nathan Greppi
Far doppiare i bianchi solo da bianchi, i neri da neri, gli omosessuali da omosessuali: questa è una delle ultime derive che ha preso piede tra le major dell’industria cinematografica. E ciò “mettendo in secondo piano la competenza dei professionisti”, ha spiegato al “Huffington Post” Daniele Giuliani, presidente ANAD (Associazione Nazionale Attori Doppiatori) e noto per essere la voce italiana di Jon Snow ne “Il Trono di Spade”. “Si vorrebbe promuovere l’inclusività ma così facendo si rischia la ghettizzazione, violando finanche l’articolo 3 della nostra Costituzione che condanna qualsiasi forma di discriminazione”.
Prosegue Giuliani: “Di fronte a determinate richieste, non abbiamo soluzioni. Per esempio, qualche tempo fa, una major aveva chiesto una doppiatrice colombiana per prestare la voce ad un’attrice colombiana: non c’era disponibilità, così è stata convocata una modella colombiana che non aveva mai avuto esperienza nel doppiaggio e che, pur impegnandosi al massimo, non è riuscita nell’intento. Alla fine, anche la major si è resa conto che la qualità del prodotto ne avrebbe risentito e si è ricominciato da capo. A rischio c’è la qualità del nostro lavoro”.
Una polemica sul doppiaggio italiano si era accesa in vista dell’uscita del film Una donna promettente, nel quale la voce dell’attore trans Laverne Cox era stata affidata a un attore uomo: Roberto Pedicini, doppiatore italiano di Jim Carrey, Kevin Spacey e Javier Bardem. La vicenda era stata rilanciata addirittura dal “Guardian”, che riportò le parole di Vittoria Schisano, attrice trans italiana che definì “offensiva” la scelta di una voce maschile per il doppiaggio della Cox. “Se fossi in lei mi sentirei bullizzata”, ha commentato al quotidiano britannico. La “Universal” arrivò a posticipare la data di uscita dal 13 maggio al 24 giugno per cambiare doppiatore, oltre a scusarsi pubblicamente con la comunità transessuale.
Le recenti polemiche sul politicamente corretto non colpiscono solo i doppiatori, ma anche gli attori: sempre a maggio, in occasione della reunion dei sei protagonisti originali delle celebre serie televisiva “Friends”, alcuni utenti social si lamentarono dell’assenza di personaggi neri di rilievo. Negli stessi giorni, il film “Marvel” del 2016 Doctor Strange venne accusato di whitewashing (cioè di affidare ad un bianco un ruolo di un’altra etnia) per aver affidato all’attrice Tilda Swinton la parte dell’Antico, storicamente un uomo tibetano, e la compagnia si scusò pubblicamente.
Il fatto è che in questo processo vi sono due pesi e due misure: quando sono attori neri a impersonare personaggi storicamente bianchi, come nel recente film su Arsenio Lupin, allora viene presentato come (citiamo le parole di “Wired”) “un fenomeno naturale da accettare”. In altre parole: un nero può interpretare un personaggio che di solito è bianco perché oggi si deve rappresentare tutti, ma se un bianco interpreta un personaggio di un altro colore allora è razzismo.
Queste polemiche sulla rappresentazione non nascono con il Black Lives Matter, ma arrivano da lontano: già nel 1989 il film di Spike Lee Fa la cosa giusta si interrogava sulle rivendicazioni dei neri di essere rappresentati. In un quartiere afroamericano, un pizzaiolo di origini italiane lavora tranquillo e benvoluto dai suoi clienti neri. La pace inizia a incrinarsi quando un attivista di colore si lamenta perché sui muri della pizzeria ci sono solo foto di celebrità italoamericane e non di neri. All’inizio il pizzaiolo se ne frega, ma l’attivista inizia a mobilitare sempre più persone, finché la situazione non degenera nella violenza, con un manifestante ucciso per soffocamento dalla polizia e una folla inferocita che per ripicca distrugge la pizzeria. Anche se le idee di Lee sono spesso estremiste, ha il merito di aver previsto in anticipo di trent’anni le violenze dei manifestanti contro i piccoli negozianti dopo la morte di George Floyd.
L’attuale deriva politicamente corretta si vede anche nelle tematiche di recenti film di successo: Una donna promettente parla di una giovane la cui migliore amica si è suicidata poiché aveva subito uno stupro e il colpevole l’aveva fatta franca. Se da un lato il film tratta giustamente il problema della violenza sulle donne e della giustizia che spesso non funziona, vi è un problema nel “come” lo fa: mentre nella pellicola del 1989 Sotto accusa una ragazza violentata riusciva ad ottenere giustizia in tribunale anche grazie alla testimonianza di un ragazzo, a dimostrare che gli uomini non sono tutti violenti o complici, in questo la protagonista non riesce ad andare avanti, avendo come unica ragione per vivere farsi giustizia da sola di coloro che commettono violenze o non sono abbastanza intransigenti nel perseguirle (donne comprese). Ne traspare una visione che incita le femministe a farsi guidare unicamente dalla sete di vendetta e a credere che nel mondo esista solo la malvagità. E anche chi fa notare che, prima di condannare qualcuno, gli va riservato il beneficio del dubbio viene attaccato pesantemente, causando una vera involuzione nel modo in cui il cinema tratta l’argomento: basti ricordare che nel 2014 il film L’amore bugiardo parlava di un uomo incastrato dalla moglie che aveva finto di essere stata uccisa, e che poi aveva incastrato un altro uomo facendo credere di essere stata stuprata.
Nel 2020 sono usciti anche film, in particolare su “Netflix”, dove si trattano argomenti storici facendo analogie col presente per attaccare la Destra: ne Il processo ai Chicago 7, ambientato durante le proteste contro la Guerra in Vietnam del 1968, si presentano i repubblicani come ossessionati dalla New Left, facendo un parallelismo con i repubblicani di oggi che secondo loro sarebbero ossessionati dall’Estrema Sinistra. Mentre in Notizie dal mondo, western ambientato pochi anni dopo la fine della Guerra di Secessione americana, si presentano gli sconfitti sudisti come simili ai trumpiani; ad esempio, quando uno insulta l’Unione gridando: “Texas first!”, o quando degli ex-soldati confederati dicono che era stata una guerra dei ricchi nordisti contro i poveri del Sud.
Sebbene il contesto fin qui descritto possa apparire preoccupante, c’è chi pensa che prima o poi finirà: in una recente intervista a “La Lettura” del “Corriere della Sera”, lo scrittore John Grisham ha difeso il suo diritto a raccontare la storia di un ragazzo di colore nel suo ultimo romanzo Il sogno di Sooley, criticando chi vorrebbe impedire ai bianchi di parlare di altre etnie. Mentre il regista Quentin Tarantino, noto per aver usato in più occasioni la parola “negro” nei suoi film, in un’intervista all’inserto “Sette” del medesimo quotidiano sosteneva che già negli anni ’80 c’era stata una forte ondata di politicamente corretto, che avrebbe iniziato il proprio declino negli anni ’90. Sulla base di ciò, egli ipotizza che l’attuale ondata finirà entro il 2028.
Giornalista pubblicista, ha scritto per le testate Mosaico, Cultweek e Il Giornale Off. Laureato in Beni culturali (Università degli Studi di Milano) e laureato magistrale in Giornalismo, cultura editoriale e comunicazione multimediale (Università di Parma).
Scrivi un commento