di Filippo Giorgianni

La vittoria dell’Europeo di calcio da parte della Nazionale italiana arriva dopo settimane di fiumi di parole su questioni culturali e politiche che sono state montate intorno al calcio giocato senza alcun motivo se non quello della mera propaganda. Le genuflessioni, gli arcobaleni, il lirismo sulle Nazionali multietniche da parte di certi giornalisti hanno accompagnato un evento che avrebbe dovuto essere unicamente sportivo ed è invece finito ostaggio di messaggi politico-culturali totalmente slegati dalle partite, posto che nessuno viene allontanato dai campi da gioco per essere nero o di orientamento sessuale diverso. Anzi, se la pacifica presenza di colori diversi non è praticamente mai stata in discussione, la presenza di orientamenti sessuali diversi, pur comportando dei problemi che la retorica non risolve ma invece acuisce – come anche negli altri ambienti della società (si pensi alla questione della condivisione mista dei bagni da parte dei due sessi) – oggi viene sempre più normalizzata con la sovra-rappresentazione del fenomeno tramite la testa d’ariete, anch’essa sovra-rappresentata artificialmente rispetto al reale bacino d’utenza, del calcio femminile, popolato inevitabilmente da diverse donne lesbiche dichiarate, a causa della natura più prettamente maschile dello sport in questione.

Il fine della retorica che ha preso in ostaggio il calcio era dunque palesemente quella di orientare gli spettatori verso precise scelte culturali e politiche: arcobaleni per veicolare le ideologie della comunità LGBTQ+, genuflessioni per veicolare l’ideologia conflittuale tardo-marxista del movimento Black Lives Matter; vale a dire due realtà che, pur monopolizzando l’attenzione dei media e i finanziamenti dei poteri economici, non possono arrogarsi il diritto di rappresentare tutti i membri delle minoranze considerate (basti pensare ai tanti omosessuali, anche di estrema avanguardia come Mauro Coruzzi, che rifiutano il movimento LGBTQ+), se non soltanto quelli politicizzati (a sinistra).

Non meno tendenziosa poi è stata la retorica sulle Nazionali multietniche, volta a manifestare apprezzamento verso le società globalizzate prive di identità e portata avanti tramite articoli al limite del grottesco e colmi di stupidità, come se una Nazionale razzialmente composita fosse una garanzia sicura di vittorie mentre una Nazionale etnicamente omogenea no. Naturalmente ci possono essere delle riserve di tipo culturale più ampio sulla perfetta intercambiabilità dei giocatori, nel senso che il problema è in generale se sia normale – vale a dire senza che ciò comporti un mutamento radicale della cultura nazionale – operare una vera e propria sostituzione etnica di una popolazione autoctona che trovi rappresentanza plastica anche nella propria Nazionale calcistica, ma questa è una questione (politica) a monte e slegata dalle selezioni sportive nazionali in sé, poiché non impatta le vittorie o le sconfitte di queste ultime: un’immigrazione minimale e controllata nel contesto di una società con una bilancia demografica tenuta sotto controllo – anziché in incipiente estinzione – è più che legittima, se non diviene esorbitante, e può trovare tranquillamente uno sbocco anche nello sport, ma una Nazionale non perde né vince per colpa o per merito della presenza degli stranieri, sicché, lungi dal ribaltare la retorica globalista in opposta polemica sulla vittoria (quasi) monoetnica degli Azzurri a danno della variegata compagine inglese con tanto di errori proprio di tre rigoristi di origini straniere(che smentisce comunque l’uso retorico sulla competitività delle Nazionali multietniche), si deve prendere atto che articoli che facciano leva sul fattore etnico-razziale in un senso o in un altro denotano semplicemente l’assenza d’intelligenza in colui che ne scrive, perché una differenza fisico-prestazionale può anche sussistere ed essere utile a seconda della razza od etnia considerata, ma una differenza sostanziale di risultato sportivo tra questa o quella etnia non sussiste poiché alla vittoria calcistica si può giungere in svariati modi tecnico-tattici, come dimostra il diverso calcio giocato dalle varie squadre di club o di Nazionale e come spiegato da Henry Kissinger negli anni Ottanta.

Ad ogni modo, a causa di tutte queste tematiche ne è così risultato un evento sportivo che, per la prima volta nella storia, è stato saturo di riferimenti politici continui (per di più unilaterali), ma che alla fine ha trovato la loro smentita proprio sul campo da gioco. Non soltanto la vittoria è andata all’unica Nazionale maggiore priva di giocatori neri com’è l’Italia (con due soli oriundi di chiare origini comunque italiane), ma soprattutto ciò è avvenuto mettendo in luce la pochezza della cultura progressista che faceva da sfondo all’evento. Non si tratta di simbolizzare attraverso il calcio uno scontro culturale tra nazioni ed appartenenze diverse – che pure può risultare letterariamente significativo dal punto di vista dell’immaginario calcistico, ma sarebbe parzialmente insensato da un punto di vista storico-politico. Semplicemente la finale ha mostrato in modo lampante come proprio i maggiori propagatori della retorica politicamente corretta (anche nel calcio tramite il cosiddetto “gioco pulito” o “fair play”), vale a dire gli anglosassoni, siano effettivamente falsi ed insinceri. Non soltanto perché le stesse imprese multinazionali di origine occidentale hanno mostrano di usare un doppio standard morale – con la pietosa vicenda della colorazione arcobaleno dei propri marchi soltanto sui campi da gioco e nelle pagine dei media sociali occidentali e il contemporaneo silenzio più assoluto in quelle dedicate ai cittadini del Medio Oriente, l’unico luogo peraltro dove la condizione omosessuale è questione di vita o di morte, mentre in Occidente no –, ma soprattutto perché il comportamento degli inglesi è stato all’insegna della continua violazione della retorica politicamente corretta che essi stessi hanno imposto al mondo.

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Per quanto l’aggressività sportiva abbia complesse radici antropologiche e filosofiche che non possono essere qui analizzate ma che non vanno banalizzate e negate tramite uno stucchevole rifiuto giornalistico sempre più diffuso (sempre in nome del politicamente corretto), comunque i fischi all’inno nazionale avversario – anche nella semifinale –, il fuoco dato alla bandiera italiana, le violenze fisiche contro alcuni italiani a Piccadilly Circus, gli insulti ai propri stessi rigoristi di colore, la sicurezza ostentata verso una sicura vittoria, il mancato tributo agli avversari con lo stadio e le strade immediatamente deserti dopo l’ultimo rigore sbagliato, mostrano che gli inglesi non consideravano propri pari gli italiani, bensì degli inferiori non degni di considerazione. Sebbene la retorica B.L.M. sia implicitamente razzista verso i bianchi, nondimeno stride la contraddizione logica di aver plaudito alla genuflessione spacciata come gesto contro il razzismo (e non a favore di una precisa parte politico-culturale), salvo poi essersi comportati da veri razzisti nei confronti dei cittadini di un altro Paese, oltre che discriminatori nei confronti dei calciatori della Nazionale avversaria. Il quadro complessivo è una vera debacle per il politicamente corretto che mostra appunto di essere un linguaggio creato solo per giustificare geopoliticamente (e trovare consenso popolare intorno a) certi interessi economici, militari, politici, culturali, slegati da un’effettiva attenzione verso l’altro in quanto altro.

Per quanto ciò possa essere derubricato a comportamento di minoranze di facinorosi da parte di commentatori interessati, in realtà la conferma della sconfitta del politicamente corretto si è avuta ai più alti livelli istituzionali: la reazione della gran parte dei giocatori inglesi al momento della consegna della medaglia del secondo posto e soprattutto il confinamento delle autorità italiane lontano da quelle inglesi insieme alla completa sparizione dei rappresentanti della Casa Reale dopo la sconfitta, nonostante dovessero essi fare gli onori di casa, sono il segno di una ipocrisia diffusa che non appartiene soltanto a pochi inglesi facinorosi, nonostante il tributo pubblico verso certi gesti o battaglie politiche progressiste. Non c’è alcuna superiorità morale nei politicamente corretti, ma anzi molta concreta corruzione e violenza dissimulata – d’altronde, quando si finge che i conflitti non debbano mai esistere è proprio lì che esplodono più violentemente –, laddove invece tante fasce di popolazione non allineate ad essi spesso sono molto più tolleranti e pacifiche verso quelle diversità che pure tali fasce di popolazione non vorrebbero imposte come nuova normalità.

Il calcio giocato, per fortuna, ha rivelato tutto questo, battendo, almeno al momento, mesi di strumentalizzazioni da esso subite.

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Laureato in Giurisprudenza, è dottorando in Scienze Storiche presso il Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne dell’Università degli Studi di Messina, ove studia il pensiero di Eric Voegelin.