by Fabio Bozzo

A Cuba l’emergenza è quotidiana. O almeno è quotidiana dal 1959, anno in cui Fidel Castro rovesciò il regime autoritario di Fulgencio Batista. Regime indubbiamente dispotico e corrotto, ma che aveva creato un principio di classe media e che, grazie agli investimenti occidentali, aveva debellato la fame, ma non la povertà, dall’isola. Tuttavia con l’arrivo al potere di Castro e dei suoi sicari leninisti, su cui troneggiò per crudeltà il medico fallito argentino Ernesto Che Guevara, le cose cambiarono radicalmente.

Il nuovo corso comunista impedì l’impresa privata, fece fuggire gli investitori stranieri, azzerò il turismo, nazionalizzò i servizi ed espropriò le terre dei latifondisti agricoli. Questi ultimi in particolare sono stati massacrati dalla storiografia di sinistra, la quale dimentica che, pur con le loro colpe, avevano fatto di Cuba uno dei primi produttori mondiali di tabacco, zucchero e frutta tropicale (prova ne è che alla fine degli anni ’40 il consumo medio di corrente elettrica a L’Avana era il doppio di quello di Lisbona). Il risultato di tutto ciò fu la fuga dei capitali, la chiusura delle banche, la fine del credito per i piccoli imprenditori locali, il prosciugamento dell’indispensabile flusso monetario di valuta estera dato dai turisti ed un disastro agricolo senza precedenti nella storia cubana. Come se non bastasse, alle follie appena descritte il regime castrista aggiunse un piano d’industrializzazione di stampo stalinista che ebbe costi umani ed economici elevati, sottrasse risorse ad altri settori più remunerativi e si concluse nel più totale fallimento.

In risposta alle violazioni dei diritti umani ed alle espropriazioni di proprietà americane il Presidente Eisenhower ed il Congresso statunitense proclamarono l’embargo economico. Su tale embargo la Sinistra ha costruito un castello di bugie durato sessant’anni, facendo credere che sia una sorta di blocco militare per impedire a Cuba di commerciare con il resto del mondo. Queste bugie non hanno certo migliorato la condizione dei cubani, ma hanno alimentato il falso mito dell’eroica Cuba comunista assediata dall’imperialismo yankee. In realtà l’embargo americano è il semplice divieto della legge statunitense e riservato alle aziende statunitensi di effettuare import-export con il regime marxista in oggetto. Niente impedisce il commercio tra Cuba e Paesi terzi, compresi molti alleati di Washington. Se l’embargo è stato ed è tutt’ora tanto dannoso per l’economia cubana ciò dimostra quanto una storia di vero capitalismo abbia reso dominante l’economia degli Stati Uniti. Con buona pace degli apologeti delle teorie economiche alternative al capitalismo stesso.

Ad ogni buon conto un regime così illuminato e progressista come quello di Castro non poté reggersi che sugli aiuti economici dei sovietici, che a Cuba si regalarono l’ennesimo regime del Terzo Mondo da mantenere in nome dell’ideologia comunista, e su un apparato repressivo che fece impallidire quello del deposto Batista. Quanto la nuova dittatura fosse feroce venne subito dimostrato dalla fuga di massa verso gli Stati Uniti. Tale fuga, ripetuta nei decenni ad ondate successive, ha portato la comunità cubano-americana a ben 2.381.000 persone.

Tuttavia il regime si è dimostrato coriaceo. L’unico effettivo tentativo statunitense di rovesciarlo, l’invasione di esuli anticastristi della Baia dei Porci lanciata da Kennedy nel 1961, fallì malamente. Le ragioni della sconfitta furono una cattiva organizzazione e la sua precocità: in quell’anno presso molti cubani lo spirito della rivoluzione era ancora vivo e l’assalto dei miliziani anticomunisti non fu seguito da una rivolta popolare.

Cuba tornò poi alla ribalta internazionale come mai prima o dopo nel 1962, durante la celebre Crisi dei Missili. Se tale evento fu per Castro in un certo senso umiliante (lui e Cuba furono un semplice oggetto di scambio ed il palcoscenico nella lotta tra le due superpotenze) fu anche un’assicurazione sulla vita. Stati Uniti ed Unione Sovietica, infatti, tra le altre cose stabilirono che mai più Mosca avrebbe installato armi strategiche a Cuba, ma in cambio Washington promise di non tentare più di rovesciare Castro con la forza.

Per il resto della Guerra Fredda la storia cubana fu quella della classica dittatura satellite dell’URSS: repressione, povertà, economia socialista allo sbando e falliti tentativi di esportare la rivoluzione. Nota di interesse del regime castrista fu il suo impegno militare all’estero. Per meritare agli occhi dei sovietici i fondamentali aiuti economici (e forse per dimostrare di non essere solo un’esotica repubblica delle banane in salsa socialista) Castro inviò decine di migliaia di soldati in Africa, dove combatterono per sostenere gli alleati di Mosca. Bisogna riconoscere che i soldati cubani si batterono con valore, sebbene il panorama militare dell’Africa subsahariana non sia di livello tale da consentire una chiara valutazione bellica, tanto che negli scontri con l’unico esercito di livello occidentale, quello sudafricano, i cubani ebbero sempre la peggio. L’esercito castrista arrivò persino ad impegnare in una piccola operazione militare l’esercito statunitense, quando quest’ultimo liberò l’isola caraibica di Grenada dal regime golpista sostenuto da Cuba. L’operazione fu una facile e netta vittoria americana sia militare sia politica, ma a modo suo fece aumentare il prestigio internazionale di Castro.

Infine arrivò il crollo dell’Unione Sovietica, che per il castrismo fu un vero disastro. Senza gli aiuti del protettore moscovita l’economia, già in crisi perenne, ebbe un crollo. Questo ed il palese fallimento mondiale del comunismo portarono in piazza decine di migliaia di persone a protestare per cibo e democrazia. Sembrava, e forse era vero, che sarebbe bastato un soffio per abbattere il regime. Eppure il soffio non arrivò. Da un lato gli Stati Uniti non misero all’angolo il regime, forse per paura di creare un’improvvisa valanga migratoria simile a quella che colpì l’Italia quando cadde il comunismo albanese, dall’altro Castro dette prova di un’elasticità ideologica e di una rigidità nel mantenere la dittatura che non possono non suscitare ammirazione.

La strategia del dittatore cubano volta a mantenersi in sella e salvarsi l’osso del collo fu simile a quella dei suoi “compagni” cinesi, ossia permettere una liberalizzazione della microeconomia, specie nelle aziende famigliari legate al turismo, incentivare come mai prima il turismo stesso e mantenere il più ferreo controllo poliziesco del regime. In questo cerchiobottismo mirante alla semplice sopravvivenza Fidel e successivamente suo fratello Raúl furono indubbiamente aiutati dal prestigio del cognome Castro: piaccia o non piaccia i due fratelli hanno caratterizzato due generazioni della storia cubana, al punto che gran parte degli attuali cittadini dell’isola non erano nemmeno nati quando cacciarono Batista nel 1959.

Ma le lancette della storia vanno avanti, lentamente quanto inesorabilmente. Oggi Cuba è allo stremo, la popolazione è ai limiti della rivoluzione ed il regime è agli sgoccioli. Perché il regime castrista è entrato nella sua ultima crisi proprio all’inizio degli anni ’20 del XXI secolo? Chi scrive crede per un misto di inevitabilità e di casuale accelerazione degli eventi. L’inevitabilità è legata all’impossibilità di mantenere eternamente schiavo un popolo, specie se questo ha di fronte alle sue coste il modello economico-politico vincente per eccellenza dell’Occidente, gli Stati Uniti. Bisogna poi considerare l’anagrafe. Fidel Castro, simbolo della rivoluzione e del castrismo stesso, dopo la vittoria contro Batista, dopo una sopravvivenza geopolitica alle peggiori tempeste internazionali e dopo cinquant’anni di potere assoluto si è dimesso nel 2011. Sarebbe morto nel 2016, alla veneranda età di 90 anni. Il successore del “lider maximo” fu il fratello Raúl, di cinque anni più giovane e che sarebbe rimasto al potere fino all’aprile scorso, quando si è dimesso per anzianità. Figura senza dubbio meno carismatica del fratello maggiore, Raúl fu nondimeno uno dei suoi più importanti consiglieri ed uno dei principali comandanti dell’apparato di repressione, tanto che alcuni lo considerano la vera mente dietro a gran parte delle scelte della Cuba comunista. Con le sue dimissioni, pertanto, un’era si è definitivamente conclusa. L’attuale Presidente, Miguel Dìaz-Canel (soprannominato dalla nomenklatura del partito “l’autostoppista”), non solo somiglia più ad un Governatore statunitense di qualche Stato dell’Ovest che ad un caudillo sudamericano e non può vantare un passato rivoluzionario (è nato nel 1960), ma è anche il primo Capo di Governo dell’isola a non essere un Castro dal 1959. In altre parole un regime che si era identificato in modo quasi fisico con una dinastia famigliare ora manca di una vera figura di riferimento.

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Fin qui i fattori dell’ineluttabilità storica. Veniamo ora al perché dell’accelerazione delle ultime settimane. Questo perché ha un nome semplice e terribile: covid. La pandemia ha dato l’ultimo colpo ad un sistema che possiamo paragonare ad un pugile già barcollante. Come abbiamo visto l’economia cubana è rimasta essenzialmente socialista e statalizzata anche dopo la fine della Guerra Fredda, poiché una vera apertura al mercato avrebbe innescato una serie di processi socio-economici che avrebbero portato alla rapida caduta del regime. Tuttavia per non far morire di fame il popolo e non portarlo alla rivoluzione Castro ed i suoi seguaci hanno permesso alcuni barlumi di liberalizzazione. Tali liberalizzazioni hanno interessato essenzialmente il turismo e tutto l’indotto ad esso legato. L’esempio più evidente è la possibilità da parte dei cubani di aprire un chiosco per vendere al dettaglio alcolici e alimenti, piuttosto che un negozietto per turisti. Similmente un cubano può affittare una stanza della sua casa ai turisti e cucinare per loro. Il tutto in cambio di contanti. Questa microeconomia privata ha permesso l’afflusso di una discreta quantità di valuta straniera (essenzialmente dollari ed euro) tale da garantire la sopravvivenza ed in alcuni casi anche un leggero miglioramento delle condizioni di vita a molti cubani. Non è un caso che dagli anni ’90 in poi il regime abbia puntato molto sul turismo, con tanto di pubblicità sulle indubbie bellezze dell’isola, comprese le bellezze umane, visto che il mercato cubano della prostituzione di ogni genere è letteralmente esploso grazie ai lauti introiti che garantisce (da notare che ufficialmente sulla prostituzione lo Stato resta proibizionista se non puritano-bolscevico, ma si tratta del segreto di Pulcinella: pecunia non olet).

Come inevitabile la pandemia di covid-19, che per una sorta di Nemesi storico-ideologica è nata nella Cina “comunista”, ha stroncato proprio il settore turistico. Con il quasi azzeramento dei flussi dei vacanzieri occidentali l’unica vera fonte di denaro s’è letteralmente prosciugata. Di conseguenza per il popolino cubano niente più yankee and blancos a cui vendere rum, a cui affittare una stanzetta, a cui cui cucinare un polipo fresco pescato di frodo o a cui, diciamocelo chiaramente, prostituirsi con la connivenza delle autorità in cambio di valuta pregiata. Fin qui il disastro economico, a cui s’è aggiunto quello politico.

Negli ultimi trent’anni la propaganda di regime e la sua squallida grancassa della Sinistra occidentale hanno esaltato il modello socialista cubano con slogan tipo “vi è la dittatura, ma nessuno muore di fame … c’è povertà, ma gli alfabetizzati sono il 99% della popolazione … non si vota, ma la sanità pubblica cubana è un’eccellenza mondiale”. E via dicendo. In particolare sulla sanità abbiamo assistito al pietoso spettacolo dei medici cubani mandati in giro per il mondo ad aiutare l’Occidente capitalista in difficoltà, una buffonata a cui avrà creduto giusto qualche elettore di Beppe erede della subcultura di estrema sinistra o estrema destra (gli stessi che hanno cercato di minimizzare le colpe cinesi ed il contributo reale alla battaglia pandemica dato da Paesi come Italia, Israele o Stati Uniti).

Col covid, che neanche a dirlo a Cuba è completamente fuori controllo, il tappo delle bugie di regime è saltato: migliaia di morti impossibili da contare a causa della censura; decessi eccellenti che fanno pensare a purghe interne con la scusa del virus; la decantata sanità pubblica cubana al collasso; blackout energetici un giorno sì e l’altro anche; azzeramento dell’economia casalinga di sussistenza e ripresa delle fughe di massa verso gli Stati Uniti. Anche a livello internazionale la situazione del regime è pessima. Da un lato l’Amministrazione Biden si sta dimostrando molto più vicina alla linea dura trumpiana che all’appeasement obamiano che pochi anni fa prolungò la vita della dittatura, dall’altro i tradizionali amici del castrismo, Venezuela e Cina, sono pressoché impossibilitati ad agire. Il regime semi-comunista venezuelano, che in passato rifornì la traballante Cuba di petrodollari, ormai è anch’esso in crisi terminale e con una situazione interna persino peggiore di quella cubana. La Cina dal canto suo potrebbe soccorrere gli eredi di Castro, ma non lo farà perché il gioco non vale la candela: spendere molto denaro per puntellare un regime vacillante ma amico è una cosa, un’altra è pestare i piedi agli Stati Uniti nel loro cortile di casa, per di più in un periodo in cui la tensione della Nuova Guerra Fredda tra Washington e Pechino sta già salendo vertiginosamente.

In questa situazione, inevitabilmente, sono esplose le manifestazioni di massa, che la storia insegna essere propedeutiche o a delle vere riforme o ad una vera rivoluzione. Per ora il regime nicchia, promettendo un po’ della libertà tanto agognata e cercando di limitare la repressione al minimo indispensabile, anche perché nessun ufficiale dell’apparato impegnato sul campo vuole sporcarsi le mani di sangue per un regime chiaramente al collasso. Pertanto se dovessimo azzardare una previsione questa non è sul se il regime comunista cadrà, ma sul quando ed a quale prezzo umano. Le manifestazioni di massa a L’Avana e nelle altre 25 principali città dell’isola sono qualcosa di mai visto nella storia della dittatura cubana. Gli slogan “Patria e Libertà”, “Abbasso la dittatura” and “Pane e democrazia”, il tutto condito da un incredibile mix di bandiere cubane e statunitensi, dimostrano che il regime è ormai un malato terminale. La scelta dei suoi leader sarà se farlo cadere in modo il più indolore possibile, magari con una progressiva transizione dei poteri che garantisca una serie di immunità legali, oppure tenere duro il più a lungo possibile, finché la pressione non farà scoppiare il coperchio della pentola, stile Romania di Ceaușescu.

Se da un punto di vista politico ed umanitario la prima soluzione è sicuramente la più conveniente, da un punto di vista della giustizia storica la seconda ha un suo perché.

Graduated in History with modern and contemporary majors at the University of Genoa. Essayist, he is author of Ucraina in fiamme. Le radici di una crisi annunciata (2016), Dal Regno Unito alla Brexit (2017), Scosse d'assestamento. "Piccoli" conflitti dopo la Grande Guerra (2020) and Da Pontida a Roma. Storia della Lega (2020, with preface by Matteo Salvini)