di Fabio Bozzo

Uno dei sacri luoghi comuni della Sinistra terzomondista è che gli Stati Uniti d’America siano un Paese razzista, dove i non bianchi in generale e le persone di colore in particolare vengono maltrattate, discriminate, incarcerate con vacui pretesti ed impunemente assassinate da poliziotti descritti come un incrocio tra l’ispettore Callaghan ed il Ku Klux Klan (che poi i suddetti poliziotti siano spessissimo di colore anch’essi è uno dei tanti buchi neri contenuti nei ragionamenti dei rossi). Capiamoci: il razzismo negli Stati Uniti esiste, così come esiste in ogni società multirazziale (o multietnica) del mondo, con buona pace degli apologeti delle società arcobaleno. Inoltre, se è verissimo che gli afroamericani in passato hanno subito vergogne come la schiavitù ed ingiustizie come la discriminazione, è altrettanto vero che oggi sono la minoranza giuridicamente e politicamente più tutelata dell’intero Nordamerica, anche quando queste tutele scadono nell’ingiustizia verso i bianchi o nel ridicolo verso il buonsenso.

Cerchiamo dunque di capire, in modo razionale e privo delle desuete ma onnipresenti ideologie novecentesche, come è nato e come si è sviluppato il fenomeno del razzismo statunitense.

Negli Stati Uniti, fino allo scoppio della guerra civile nel 1861, il razzismo c’era, ma era molto diverso da quello successivo. Al Sud vi era la schiavitù ed i neri erano trattati come proprietà, ma avevano anche lo status di esseri umani: uccidere uno schiavo era reato capitale che prevedeva anche il risarcimento del suo valore al proprietario. Unica eccezione era se si ribellava: in quel caso l’impiccagione era la legge e le torture erano la consuetudine. Questo perché la bella vita dei piantatori del Sud, di cui l’immortale capolavoro Via col vento ci ha dato una magnifica quanto superficiale immagine, aveva un rovescio della medaglia: il terrore delle rivolte degli schiavi neri sulla falsariga di quella di Toussaint Louverture, che ad Haiti si concluse col totale genocidio della popolazione bianca. Tali rivolte negli Stati schiavisti del Sud in verità non si verificarono mai, se non in forma assolutamente minimale. Inoltre, durante la guerra civile una rivolta di massa degli schiavi avrebbe comportato il crollo quasi immediato della Confederazione secessionista, ma gli schiavi restarono fedeli ai propri padroni fino alla fine, o al massimo cercarono di fuggire verso le linee nordiste in cerca della libertà. Questo perché il trattamento degli schiavi negli USA era assai migliore che nell’ex colonia francese dei Caraibi e perché nel Sud statunitense i neri restarono sempre una minoranza, per quanto assai corposa.

Tuttavia non vi era da parte dei grandi latifondisti verso i neri un razzismo come lo intendiamo noi; piuttosto il sentimento dominante era un esasperato paternalismo: i neri erano considerati dei bambinoni da accudire, tutelare (anche con la schiavitù che deresponsabilizzava) ed occasionalmente punire. In pratica era una società molto ipocrita, ma non propriamente razzista. Vi erano anche dei neri liberi, molti dei quali combatterono per il Sud nella guerra civile: sebbene infelici per la schiavitù che ancora incatenava la stragrande maggioranza dei loro fratelli, erano e si sentivano parte della civiltà sudista. Il vero razzismo al Sud albergava invece tra i contadini poveri bianchi, i cosiddetti redneck (i colli rossi per il Sole nel lavoro nei campi), a cui gli schiavi dei grandi piantatori facevano concorrenza “sleale”. Tuttavia sia i grandi latifondisti, che produssero gli ufficiali, sia i bianchi poveri, che produssero la truppa, diedero sangue a tonnellate per l’indipendenza del Sud.

La schiavitù fu causa della guerra civile? Sì e no. Sì perché creava delle storture economiche e dei litigi morali che esasperarono gli animi, no perché lo scontro di interessi politico-economici Nord-Sud stava crescendo da 50 anni indifferentemente dalla questione dei neri. La schiavitù fu solo un’arma morale in più del Nord, che quel genio della politica che fu Lincoln sfruttò con una propaganda perfetta e con non poca ipocrisia (il suo progetto prevedeva che dopo la liberazione gli ex schiavi fossero tutti ricollocati forzatamente in Africa e nei Caraibi).

Nel Nord invece il razzismo, nel senso similare a come lo intendiamo oggi, era molto più diffuso. Perché? Perché intanto di neri ce ne erano pochissimi ed erano visti come portatori dei problemi sociali che già gravavano il Sud, e soprattutto perché i neri liberi che emigravano al Nord andavano a fare gli operai sottopagati in concorrenza tra poveri con gli operai bianchi, soprattutto gli irlandesi che spesso erano indigenti. Alcuni Stati del Nord addirittura, pur essendo tra i primi a vietare la schiavitù, avevano anche il divieto di presenza dei neri sul loro territorio: se ne trovavano uno lo accompagnavano alla frontiera di un altro Stato.

Con la guerra civile tutto cambiò. Il Sud sconfitto era a pezzi, devastato, dissanguato, impoverito e demograficamente (quindi elettoralmente) subissato dal Nord e dal Midwest. Sarebbe rimasto così per 100 anni. Pur con la totale vittoria militare i nordisti sapevano che i sentimenti dei bianchi del Sud erano ostili, quindi per circa dieci anni mantennero l’occupazione militare. Per ricostruire le amministrazioni statali si appoggiarono ai neri liberati, facendoli votare repubblicano (all’epoca il partito dei neri) ed escludendo dal voto gli ex confederati, ovvero tutti i bianchi. I bianchi del Sud quindi videro nei neri, solo parzialmente a ragione, la causa dei loro disagi: pertanto fondarono il Ku Klux Klan che attuò una vera e propria guerriglia contro i nuovi amministratori ex schiavi e contro i loro controllori nordisti (questi ultimi spesso colpevoli di esasperata corruzione).

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Le gesta del KKK si macchiarono di oscenità, al punto che la reazione dell’esercito federale fu obbligatoriamente dura e spezzò la guerriglia. Ma se si voleva ricostruire la concordia nazionale non si poteva continuare così. Pertanto nel 1876 si giunse al celebre compromesso: i democratici, che all’epoca erano per lo più radicati nel Sud, accettarono di restare chissà per quanto minoranza a livello federale, ma ottennero di riprendere il potere a livello statale negli Stati ex secessionisti. Pertanto i vari governi “neri” retti da frodi elettorali e dall’occupazione militare caddero in breve tempo. I nuovi governi “bianchi” emanarono le prime leggi discriminatorie, una novità assoluta nella storia legale statunitense, per legalizzare la separazione sociale delle due etnie e rendere impossibile ai neri d’esercitare il diritto di voto. Al Nord vi fu qualche brontolio, ma l’accordo del 1876 resse. Ormai i neri del Sud erano visti come un corpo sociale parallelo e di peso, che non aveva più le tutele degli schiavi, ma non poteva ergersi all’eguaglianza coi bianchi ed in più ritenuti (erroneamente) come la causa principale della guerra e quindi delle disgrazie del Sud.

Tra alti e bassi questa situazione resse fino al 1960. In quell’anno sia democratici sia repubblicani iniziarono a parlare seriamente di desegregazione (se ne parlava a bassa voce da 30 anni). Il democratico Kennedy la promise in campagna elettorale, poi in tre anni di presidenza non fece nulla se non begli slogan. Dopo il suo assassinio il successore Johnson la impose legalmente agli Stati del Sud che ancora attuavano la segregazione (molti ma già allora non più tutti). Ovviamente vi furono battaglie politico-legali e resistenze anche violente, con tanto di recrudescenza del KKK. La conseguenza più importante fu politica: i bianchi del Sud dopo molti dubbi passarono in massa dai democratici ai repubblicani, mentre i neri fecero il tragitto inverso. Il Nord, storicamente repubblicano, si spaccò: le zone più benestanti divennero liberal di sinistra, quelle progressivamente deindustrializzate repubblicane.

Siamo arrivati ai giorni nostri. La polpetta avvelenata della difficile e spesso tragica storia appena raccontata si chiama discriminazione positiva, in inglese affirmative action. Per beceri motivi elettorali i democratici hanno capito che per trattenere il voto delle minoranze etniche bisogna sempre corromperle. Come? Passando dall’imposizione della sacrosanta uguaglianza ai privilegi, chiamati appunto discriminazione positiva, imposti per legge. Pertanto un’azienda è costretta ad assumere un tot di neri o di donne anche se avrebbe candidati bianchi o maschi più preparati. Se un poliziotto uccide un delinquente nero scoppiano le rivolte, ma se un delinquente nero uccide un bianco i telegiornali nemmeno ne parlano. Se un politico bianco mangia la faccia ad uno nero viene accusato di razzismo, se accade il contrario quello nero è un figo che non le manda a dire. E così via.

In sintesi: la società americana nella sua complessità ha sconfitto l’ignobile schiavismo a costo di un fiume di sangue. A seguito di ciò nacque il razzismo come lo intendiamo oggi. Le ingiustizie della discriminazione furono progressivamente messe all’angolo dalla modernizzazione della società ed infine cancellate da un Presidente controverso, Johnson (molto di sinistra in politica interna ma falco dell’anticomunismo, tanto da essere il Presidente che fece il grosso del Vietnam) e con un voto bipartisan del Congresso (la maggioranza assoluta sia dei democratici sia dei repubblicani votò per la fine della discriminazione). Infine la discriminazione venne gestita pessimamente, andando da una battaglia di giustizia per i neri ad una richiesta di sempre maggiori privilegi per le minoranze e ad una perenne mortificazione dei bianchi, specie se maschi. E chi osa contestare le nuove ingiustizie contro i bianchi viene subito marchiato, neanche a dirlo, come razzista.

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Laureato in Storia con indirizzo moderno e contemporaneo presso l'Università di Genova. Saggista, è autore di Ucraina in fiamme. Le radici di una crisi annunciata (2016), Dal Regno Unito alla Brexit (2017), Scosse d'assestamento. "Piccoli" conflitti dopo la Grande Guerra (2020) e Da Pontida a Roma. Storia della Lega (2020, con prefazione di Matteo Salvini).