di Stefano Graziosi
Sono delle rivelazioni inquietanti quelle contenute nelle anticipazioni di Peril, il nuovo libro scritto da Bob Woodward e Robert Costa, dedicato alla travagliata fase finale della presidenza di Donald Trump. Rivelazioni inquietanti che riguardano principalmente l’attività del capo di stato maggiore congiunto, il generale Mark Milley.
In primis, come riportato dal “Washington Post”, il 30 ottobre 2020 e l’8 gennaio 2021 il militare ha avuto due conversazioni telefoniche segrete con il suo omologo cinese, Li Zuocheng. In entrambi i colloqui, il generale statunitense ha rassicurato la controparte sull’eventualità di un attacco militare di Washington contro Pechino. In particolare, nella telefonata del 30 ottobre – a quattro giorni cioè dalle elezioni presidenziali – Milley non solo escluse un atto ostile da parte americana, ma – ha riferito il “Washington Post” – “è arrivato al punto di promettere che avrebbe avvisato il suo omologo in caso di attacco statunitense, sottolineando il rapporto che avevano stabilito attraverso un canale segreto”.
Comprensibilmente queste rivelazioni hanno scatenato non poche polemiche. Anche perché un simile comportamento risulta sostanzialmente un atto di tradimento. E non in senso generico, ma tecnico. “Chiunque, dovendo fedeltà agli Stati Uniti, muova guerra contro di loro o aderisca ai loro nemici, dando loro aiuto negli Stati Uniti o altrove, è colpevole di tradimento”, recita infatti il codice degli Stati Uniti. Stupisce quindi francamente la reazione dell’amministrazione Biden a queste rivelazioni. La portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki, ha dichiarato che il presidente americano ha “fiducia completa” nel Capo di Stato Maggiore Congiunto. Una linea, questa, fatta propria anche dal segretario alla Difesa, Lloyd Austin, che ha affermato: “Ho fiducia nel generale Milley”.
D’altronde, le anticipazioni diffuse dai media non si fermano qui. Viene infatti riferito che, dopo l’irruzione in Campidoglio, l’8 gennaio Milley avrebbe tenuto una riunione segreta al Pentagono sull’utilizzo dei codici nucleari: una riunione in cui il generale avrebbe imposto agli ufficiali presenti di non eseguire alcun ordine, a meno che lui stesso non fosse stato coinvolto. Eppure, secondo quanto riferito recentemente dal sito “Politifact“, il Comitato dei Capi di Stato Maggiore – organo presieduto proprio dal Capo di Stato Maggiore Congiunto – non fa parte della catena di comando relativa a un attacco nucleare. Il Capo di Stato Maggiore Congiunto può semmai partecipare al processo decisionale che porta all’attacco: attacco che – ricordiamolo – può essere però ordinato esclusivamente dal Presidente degli Stati Uniti. Non esiste comunque alcun obbligo per il Presidente – ha proseguito “Politifact” – di consultarsi con il Capo di Stato Maggiore Congiunto su questa materia. Alla luce di tutto ciò, il fatto che Milley – secondo il libro di Woodward e Costa – pretendesse di essere coinvolto, come deve essere letto? Molto probabilmente ha travalicato indebitamente il suo ruolo.
Ma c’è dell’altro. Lo stesso 8 gennaio, Milley ricevette una burrascosa telefonata dalla Speaker della Camera, Nancy Pelosi, che pretendeva di fatto dei provvedimenti per limitare la possibilità di azione di Donald Trump in riferimento all’utilizzo dei codici nucleari. In particolare, la Pelosi sostenne che l’allora Presidente fosse “pazzo”: dichiarazione con cui il Generale si disse d’accordo. Non solo: dopo la telefonata – riferiscono sempre la CNN e gli altri media – il Capo di Stato Maggiore Congiunto mise in allerta i vertici della CIA e della NSA. Ora, non è esattamente chiaro in base a quale autorità Nancy Pelosi si sia permessa una simile interferenza. Il Capo di Stato Maggiore Congiunto agisce infatti “al servizio del Presidente”, dal quale è nominato previa ratifica del Senato. La Speaker della Camera non aveva quindi alcuna autorità per fare quella telefonata, in cui – a detta del libro di Woodward e Costa – ha usato toni imperiosi (e scurrili).
Verrebbe quindi onestamente da chiedersi dove siano tutti coloro che solitamente si riempiono la bocca con la democrazia o che gridano al golpismo assai spesso con grande facilità. Ricordiamo, tra l’altro, che il primo consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, il generale Mike Flynn, fu costretto a dimettersi per molto meno. Flynn finì infatti nella bufera per aver avuto delle conversazioni in materia di politica estera con l’Ambasciatore russo negli Stati Uniti a fine dicembre del 2016: qualcuno disse che quella condotta delineava una violazione del Logan Act (legge che impedisce ai privati cittadini di interferire nella politica estera degli Stati Uniti). Piccolo dettaglio: Flynn era Consigliere per la sicurezza nazionale in pectore e lo sarebbe formalmente diventato nel giro di appena tre settimane (il 20 gennaio 2017). È tra l’altro prassi che i funzionari in pectore inizino a prendere contatti con le controparti estere prima di entrare ufficialmente in carica.
Davvero qualcuno può ritenere il caso di Flynn più grave di quello di Milley?
Ricercatore del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Filosofia politica (Università Cattolica di Milano) con una tesi su Leo Strauss. Si occupa di politica internazionale collaborando con "La Verità" e "Panorama". Il suo ultimo libro è Trump contro tutti. L'America (e l'Occidente) al bivio (2020), scritto con Daniele Scalea.
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