di Andrea Bandelli

Il sistema economico italiano si trova ad affrontare un lock-down generalizzato e prolungato che ha avuto e avrà conseguenze molto pesanti sulla tenuta del nostro tessuto imprenditoriale, sulla sua capacità di preservare l’integrità delle catene del valore e sulla capacità delle nostre aziende di ritornare ai livelli produttivi ed occupazionali ante virus.

In questo contesto implementare e promuovere con determinazione e sistematicità una seria strategia di reshoring è una necessità e può rappresentare per il nostro Paese una grande opportunità, perché ci consentirebbe di riportare in Italia aziende e stabilimenti produttivi localizzati (o a suo tempo delocalizzati e questo è il caso del back-reshoring) in paesi europei ed extra europei dove i costi di produzione erano di gran lunga inferiori a quelli nazionali.

Del resto non ci sono grandi alternative e, negli ultimi anni, questo fenomeno del reshoring è stato al centro delle politiche economiche di moltissimi paesi, tra cui l’Inghilterra e soprattutto gli USA dove il rientro è stato incoraggiato, oltre che da incentivi, da precise scelte nell’applicazione di dazi ai prodotti e servizi che l’Amministrazione americana ha ritenuto strategici e la cui produzione doveva avvenire sul territorio americano. Questo ha comportato la creazione di centinaia di migliaia di posti di lavoro diretti ed altrettanti nell’indotto.

L’Italia non può contare, come invece sarebbe stato auspicabile in un contesto di normalità economica (e di effettività di un sinallagma tra le esigenze dei vari paesi europei e quelle italiane, come auspicato e mai ad oggi avvenuto), sulla applicazione mirata di dazi e politiche europee volte a favorire il reshoring di determinate filiere o comparti produttivi in quanto il contesto europeo non lo consente. Quindi può favorire il reshoring soltanto offrendo alcune agevolazioni mirate di tipo fiscale, contributivo e di supporto alla individuazione e localizzazione degli stabilimenti produttivi.

Una interessante indagine Istat sul trasferimento all’estero della produzione nel triennio 2015/2017 (un’indagine conoscitiva chiamata International Sourcing promossa dalla Commissione Europea), i cui dati sono ormai consolidati e definitivi, mostra che nei tre anni presi in esame solo il 3,3% delle medie e grandi imprese ha trasferito all’estero attività o funzioni svolte in Italia, contro il 13,4% del  periodo 2001/2006. Un analogo trend di ridimensionamento del fenomeno si è registrato anche a livello europeo, dove si è scesi dal 16% al 3%, e se poi dall’analisi delle percentuali si passa ai numeri assoluti la tendenza appare con ancora maggiore nettezza. Le imprese che hanno delocalizzato attività nel periodo 2015/2017 sono state circa 700 e sono prevalentemente aziende industriali (nel manifatturiero sono le industrie ad alta o medio-alta tecnologia a ricorrervi con maggiore frequenza) e anche di servizi. Sono state oltre mille le imprese (pari al 5% delle grandi e medie imprese industriali e dei servizi) che, nello stesso periodo preso in esame dall’indagine, hanno scelto di dar vita ad outsourcing di attività o funzioni aziendali precedentemente svolte all’interno, ma localizzandole in Italia; più la dimensione sale più la propensione si rafforza. Di questi mille, almeno 300 sono investimenti in outsourcing che rientrano dall’estero e quindi possiamo catalogarle come operazioni di «back reshoring» da parte di gruppi italiani, e questo ci da la misura di come il fenomeno si stia evolvendo.

Alla domanda su quali motivi potrebbero influenzare in modo determinante ulteriori trasferimenti in Italia in un’ottica 2020, le imprese hanno risposto indicando per l’84,5% la riduzione della pressione fiscale, per il 79%
specifiche politiche per il mercato del lavoro,  per il  75,5% le policy di offerta localizzativa, per il 70,9% gli incentivi per l’innovazione e per le imprese industriali – in particolare il 76,9% i finanziamenti per l’acquisto di macchinari e politiche per l’offerta di lavoro qualificato (technology skilled workers).

Un altro interessante quadro del fenomeno viene dall’analisi del rapporto di Eurofond Reshoring in Europe 2015/2018 in cui l’Italia, con 39 casi, è seconda in Europa soltanto all’Inghilterra (con 44 casi) . Considerando che nel periodo 2014/2019 nel nostro Paese si contano circa 120 casi, è evidente che il reshoring sta assumendo una dimensione significativa seppur ancora limitata in termini quantitativi.

Nel recente passato le motivazioni contrarie, quelle che hanno  portato a delocalizzare all’estero, sono state la riduzione del costo del lavoro, giudicata molto importante dal 62,2% delle imprese e superiore come rilievo alla
riduzione di altri costi di impresa (48,8%); le aziende più motivate sul costo del lavoro sono state le manifatturiere ad alta tecnologia. I Paesi destinatari di queste delocalizzazioni sono stati India (8,7%) per le funzioni aziendali di supporto come i servizi informatici e di telecomunicazioni, Stati Uniti e Canada in generale e Cina per la produzione di merci. L’ostacolo maggiore ha riguardato, invece, la difficoltà a trasferire personale all’estero.

Dall’analisi di quest’insieme di dati si evince che oggi la variabile costo del lavoro, che aveva condizionato e favorito la maggior parte delle delocalizzazioni, non costituisce più da sola un elemento determinante nella decisione di fare outsourcing oltre frontiera, anche per la difficoltà di delocalizzare la manodopera made in Italy necessaria a garantire gli standard produttivi italiani, rendendo quindi utopistico pensare di poter riproporre all’estero la straordinaria qualità del made in Italy con un costo del lavoro molto più contenuto.

LEGGI ANCHE
Oggi il Green Pass, domani il Sistema di Credito Sociale

Una recente analisi della Università di Udine ha individuato nell’aumento dei costi di produzione all’estero (la forza lavoro dei paesi asiatici e dell’Europa dell’est ha iniziato a organizzarsi sindacalmente), nei tempi troppo lunghi delle consegne, nella riorganizzazione globale delle aziende e nella riscoperta forza del brand “made in Italy” (specialmente adesso che le norme europee sulla sicurezza impongono l’indicazione dell’origine di tutte le merci), i principali fattori che favoriscono il reshoring. La qualità sembra aver recuperato terreno rispetto alle produzioni seriali e alle economie di scala e sempre maggiore attenzione viene posta alla sostenibilità delle produzioni, al fair trade ed al valore umano ed ambientale. Quello che si perde spendendo di più in fase di produzione, si guadagna sul prodotto finito valorizzandone la credibilità e la qualità della produzione 100% made in Italy.

Spetterà al Ministero dello Sviluppo Economico creare le condizioni per far si che molte delle imprese che ancora non hanno deciso di riportare in Italia le loro produzioni lo facciano, perché in questo momento di crisi economica il reshoring diviene strategico per sterilizzare o mitigare gli effetti depressivi globali della pandemia.

Vista l’impossibilità di replicare ed attuare il modello americano utilizzato dall’Amministrazione guidata dal Presidente Trump, che prevede l’uso strategico di incentivi e dazi selettivi, il  modello da costruire e utilizzare per il reshoring italiano, assai più simile a quello inglese, dovrebbe prevedere un soggetto istituzionale quale ad esempio Cassa Depositi e Prestiti o Invitalia,  che si occupi di fare scouting tra le imprese espatriate o estere interessate a localizzare le loro produzioni sul nostro territorio nazionale, fungere da sportello unico per l’espletamento di tutta la parte burocratica e supportare le aziende nella individuazione degli immobili industriali o commerciali disponibili sulla base delle specifiche esigenze, quali vicinanza a distretti e/o filiere, a fornitori o sub fornitori, trasporti e servizi.

Gli incentivi e le agevolazioni da concedere alle imprese che decidono di portare le produzioni di beni o servizi in Italia dovrebbero essere: uno sgravio fiscale almeno quinquennale consistente nella riduzione dell’imposta sul reddito dall’attuale 24% fino al 12/10%, da graduare sulla base di alcuni parametri come l’ammontare degli investimenti in beni strumentali e il numero dei dipendenti assunti a tempo indeterminato; uno sgravio dei contributi previdenziali da graduare nell’intensità e nel tempo sulla base del numero di contratti di lavoro; un ulteriore contributo sui canoni di locazione graduato in base alle aree per favorire una distribuzione omogenea delle imprese che rientrano su tutto il territorio nazionale, e l’utilizzazione di plessi industriali o del terziario già esistenti in modo da ridurre al minimo indispensabile i tempi di trasferimento e inizio dell’attività; agevolazioni di fiscalità diretta specifiche per i lavoratori che al seguito della loro azienda rientrano a lavorare in Italia.

Anche se la concessione di agevolazioni, contributi e incentivi alle imprese che rientrano dopo aver delocalizzato non è eticamente accettabile, specie se comparato con il nulla che spetta a quegli imprenditori che in questi anni sono rimasti a produrre in Italia (sostenendo costi di produzione e una fiscalità diretta e indiretta ben superiore) e che ora si vedono rientrare potenziali competitor con vantaggi competitivi su costo del lavoro e fiscalità diretta, purtroppo in un momento come questo il reshoring senza applicazione selettiva di dazi e contingentamenti quantitativi rappresenta una opportunità ed anche una necessità per il nostro Paese, e dovremo cercare di massimizzarne nel più breve tempo possibile i risultati sia in termini di ricchezza prodotta, sia in termini di nuovi posti di lavoro creati, sia in termini di maggiore consistenza, qualità e solidità del nostro sistema produttivo. In questi casi la decisione e la velocità di esecuzione sono determinanti al pari della validità del modello utilizzato e degli incentivi messi a disposizione delle imprese. Speriamo che il Governo faccia presto e utilizzi al meglio le poche risorse disponibili per il bene dell’Italia.

+ post

Per il Centro Studi Machiavelli è responsabile del programma di ricerca su "Reshoring e rilocalizzazione d'impresa". Laureato in Economia (Università degli Studi di Firenze), Dottore Commercialista, Revisore legale e socio fondatore di uno Studio professionale specializzato in consulenza societaria e fiscalità nazionale ed internazionale.