di Bianca Laura Stan

L’accordo globale sull’investimento (CAI – “Comprehensive Agreement on Investment”) dell’Unione Europea con la Cina – annunciato il 30 dicembre 2020, alla fine del semestre di presidenza tedesca – è stato il risultato di lunghi negoziati tra i funzionari dell’UE e gli Stati membri. Dopo quasi sette anni e trentacinque cicli di colloqui UE-Cina, la Commissione Europea ha stabilito di aver ottenuto il massimo possibile. I negoziati si erano svolti a passo di lumaca fino a poco tempo fa, ma nelle ultime settimane di dicembre sono giunti finalmente da Pechino impegni su due aree principali: gli standard internazionali del lavoro e lo sviluppo sostenibile. Questo round di negoziati è stata l’ultima occasione per la cancelliere tedesca Angela Merkel (che ha visitato la Cina dodici volte da quando è entrata in carica nel 2005) per concludere un accordo con il Paese, prima di ritirarsi.

La tempistica dell’annuncio del CAI – tre settimane prima dell’insediamento del presidente americano Joe Biden – ha suscitato perplessità a Washington. Sebbene non sia stato in grado di interagire ufficialmente con l’UE o i governi europei prima di entrare in carica, il team di Biden sembrava chiaramente desideroso di sensibilizzarli sulle pratiche cinesi sleali, come sussidi statali, trasferimenti forzati di tecnologia e discrepanze nell’accesso al mercato. Perché l’UE, che afferma di avere preoccupazioni simili e aveva criticato l’approccio unilaterale dell’Amministrazione Trump, ha preferito andare avanti da sola? La Merkel, a quanto pare, voleva spingere per un accordo economico, nel contempo mantenendo la pressione sulla Cina sugli altri temi (diritti umani, diritti del lavoro e Hong Kong).

Dopo anni di contrasti, il CAI aprirà alle aziende europee le porte di diversi settori dell’economia cinese, eliminando il requisito di joint-venture in settori industriali (compresi automobilistico, chimico e sanitario), servizi finanziari e assicurazioni, ospedali privati, risorse biologiche, trasporto aereo, servizi immobiliari e ambientali, servizi cloud. Su pressione della Francia, la Commissione Europea si è inoltre assicurata che lo sviluppo sostenibile fosse incluso nel documento finale.

In generale, il CAI è un lavoro in corso. Rimane ancora molto da discutere riguardo alle promesse della Cina in materia di sviluppo sostenibile (Pechino è il più grande emittente di gas serra e non sta rispettando l’Accordo di Parigi cui pure ha aderito), lavoro e accesso al mercato. Da parte sua, Pechino può vedere il CAI come una vittoria simbolica e tempestiva, essendo stata in grado di firmare un accordo con una grande entità occidentale poco prima che la nuova amministrazione americana si insediasse. Durante la campagna presidenziale, Biden e il suo team avevano esplicitamente chiesto alle democrazie di affrontare congiuntamente la questione cinese.

Non è chiaro come l’UE garantirà che la Cina attui la sua parte dell’accordo, in particolare per quanto riguarda gli standard dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), a cui Pechino ha promesso di conformarsi ma senza fissare una data chiara per la ratifica delle convenzioni pertinenti. A differenza del Vietnam, che quando ha negoziato il suo accordo commerciale con l’UE nel 2019 aveva accettato di ratificare la Convenzione dell’OIL sul diritto di organizzazione e contrattazione collettiva.

La Cina si è impegnata per un maggiore livello di accesso al suo mercato per gli investitori dell’UE, ma Pechino ha anche il 1° dicembre 2020 regolamenti per la revisione degli investimenti esteri con nuovi ostacoli per le aziende. Inoltre, il Ministero del Commercio cinese ha emanato un decreto, il 9 gennaio 2021, per scongiurare “l’applicazione extraterritoriale ingiustificata della legislazione straniera”, pensato per sanzioni internazionali che potrebbero colpire le imprese cinesi in futuro.

L’industria automobilistica tedesca insieme all’industria chimica trarrà grandi benefici dalle nuove aperture di mercato in Cina. Altri beneficiari includono i subappaltatori del settore, molti dei quali con sede nell’Europa Orientale o Centrale. La Germania ha approfittato delle profonde interazioni economiche con la Cina meglio di qualsiasi altro Paese europeo negli ultimi trent’anni: a differenza della stragrande maggioranza degli altri membri dell’UE ora ha una relazione commerciale quasi equilibrata con la Cina (per un valore di circa 200 miliardi di euro), mentre altri vedono aumentare i loro deficit commerciali. Ma non tutti in Germania sono d’accordo con l’opinione dei campioni del CAI. Esso affronta i problemi delle vecchie industrie come l’automobilistica, ma non la minaccia più grande: la determinazione della Cina a spingere le sue industrie high-tech in tutti i principali mercati globali, limitando severamente l’accesso degli altri al proprio. A Berlino, gli oppositori politici della Merkel hanno espresso forti dubbi sul suo approccio. La Francia ha avuto un dibattito nazionale meno intenso sulla questione, ma i parlamentari francesi si sono mostrati estremamente scettici.

Sebbene tutti gli Stati membri siano stati regolarmente informati dalla Commissione Europea durante il processo negoziale, alcuni ritengono avrebbe dovuto esserci più dibattito ed hanno espresso la loro delusione per il modo in cui il CAI è stato gestito dalla presidenza di turno tedesca. Il sottosegretario agli Affari Esteri Ivan Scalfarotto ha dichiarato: “Stiamo dando un segnale positivo alla Cina in un momento di significative preoccupazioni per i diritti umani”. Il ministro degli Esteri polacco Zbigniew Rau ha twittato sulla necessità di “maggiori consultazioni e trasparenza che coinvolgano i nostri alleati transatlantici”, aggiungendo che “un buon affare equilibrato è meglio di uno prematuro”. Oppositori e difensori dell’accordo si stanno preparando per il dibattito di ratifica al Parlamento europeo, che dovrebbe svolgersi nei prossimi mesi.

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Per Pechino era importante ottenere un successo entro la fine di un anno durante il quale le critiche europee alla Cina sembravano essersi intensificate, sia sulle origini della Covid-19 sia sulle violazioni dei diritti umani contro le minoranze uigura e kazaka nello Xinjiang, e i ripetuti arresti di attivisti democratici a Hong Kong. Il 22 marzo l’UE aveva deciso, per la prima volta dal 1989, di imporre sanzioni a quattro funzionari cinesi coinvolti nella gestione di campi di internamento per uiguri nella regione dello Xinjiang, provocando un rabbioso contrattacco da parte di Pechino. Senza dubbio il tentativo di Pechino di capitalizzare la crisi sanitaria in Europa attraverso la cosiddetta “diplomazia delle mascherine” e altre azioni non ha giovato alla sua reputazione. In particolare, l’immagine della Cina è andata sbiadendosi nell’Europa Centrale e Orientale. Il 10 febbraio i leader di tre Paesi dell’Europa Centrale e dei tre Stati baltici hanno rifiutato l’invito a partecipare al vertice virtuale del Gruppo 17 + 1, format istituito dalla Cina per interagire direttamente con la regione. Alcuni Paesi potrebbero gradualmente allontanarsi da esso.

Il divario tra le democrazie europee e un regime cinese sempre più autoritario si è ampliato e il commercio e gli investimenti sembrano essere le principali aree di cooperazione in questo momento. Oltre al CAI, l’unico risultato recente è stata la firma, lo scorso anno, dell’Accordo UE-Cina sulle indicazioni geografiche, inizialmente rivolto a 200 marchi europei e cinesi.

Il CAI è stato presentato come parte della cassetta degli attrezzi dell’UE per affrontare i rischi economici legati al capitalismo di Stato cinese. Questi attrezzi includono il meccanismo di screening degli investimenti dell’UE (operativo dallo scorso ottobre), il Libro bianco sui sussidi esteri nel mercato unico (pubblicato lo scorso luglio) e una serie di misure di mitigazione sul 5G (annunciate lo scorso gennaio). È in corso di realizzazione anche un libro bianco sugli appalti internazionali. Tali azioni sono risposte alle sfide provenienti principalmente, ma non esclusivamente, dalla Cina.

Nelle menti dei dirigenti europei il CAI non dovrebbe essere visto come un ostacolo a una discussione solida, regolare e transatlantica sulla Cina. Il dialogo UE-USA avviato dall’Amministrazione Trump lo scorso anno sarà quindi proseguito con l’Amministrazione Biden. L’UE desiderava prevenire le critiche statunitensi al CAI rilasciando, subito dopo le elezioni presidenziali statunitensi dello scorso novembre, un’agenda transatlantica per il cambiamento globale, che non menziona la Cina ma fa riferimento ai valori e obiettivi comuni tra Europa e Stati Uniti.

Tra le tante dichiarazioni dell’UE che fanno riferimento alle relazioni del blocco con la Cina, l’Agenda strategica per la cooperazione 2020, pubblicata nel 2013, rimane (nonostante il suo linguaggio un po’ ingenuo sui diritti umani) forse il piano d’azione più completo sulla cooperazione tra i due Paesi. Tuttavia, è stato oscurato dalle prospettive strategiche del 2019, che assegna alla Cina un triplice ruolo: partner negoziale, concorrente economico e rivale sistemico. A differenza degli Stati Uniti, l’UE non ha il potere “duro” necessario per competere con una Cina che sta espandendo la sua influenza strategica nel Pacifico e in altre regioni. Il suo soft power è rilevante ma insufficiente. L’UE può far leva sulla difesa dei valori democratici liberali e dello Stato di diritto, oltre che su un mercato di 450 milioni di consumatori. Forse questo è proprio ciò che l’UE non ha saputo fare quando ha firmato il CAI, che avrebbe potuto essere parte di un accordo multilaterale con la Cina. Anche se l’accordo non sarà infine ratificato dal Parlamento europeo, Pechino avrà beneficiato di un momento simbolico.

I politici europei potrebbero presto dover affrontare ampi dibattiti pubblici sull’ascesa della Cina. Inizieranno con il CAI, senza dubbio, e dovrebbero continuare attraverso le campagne elettorali, quest’anno in Germania e il prossimo in Francia. Merkel e Macron hanno difeso il dialogo continuo con la Cina, in contrasto col “disaccoppiamento” promosso da Trump. Tuttavia, dovranno affrontare un’opinione pubblica sempre più scettica verso la Cina, con ONG, giornalisti, accademici e politici che hanno accumulato rimostranze verso il comportamento di Pechino.

A differenza degli Stati Uniti, i leader europei non sembrano credere nella cosiddetta fungibilità con la Cina. La loro tesi è che l’economia dovrebbe essere trattata separatamente dal resto degli sforzi diplomatici. Sembra esserci un approccio diverso dall’Amministrazione Biden, che sta gradualmente rivelando la sua politica sulla Cina e il cui approccio prevede di affrontare direttamente le preoccupazioni degli Stati Uniti sui valori e gli interessi coi leader cinesi. Per il momento l’UE ha intrapreso una rotta diversa, palesando l’attuale divario tra le due sponde dell’Atlantico; ma visto il deteriorarsi delle relazioni tra Cina e democrazie occidentali, i dirigenti europei si stanno avventurando in un territorio inesplorato.

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Laureata in Giurisprudenza e laureanda in Psicologia, scrittrice e giornalista, collabora in Romania con “Anticipatia” e "Geopolitica.ro" e in Italia con "FuturoProssimo.it". Membro del Center for Complex Studies di Bucarest.