di Fabio Bozzo

Winston Churchill, malgrado fosse un europeista convinto, fu anche tanto lucido da dire: “Se saremo costretti a scegliere tra l’Europa ed il mare aperto, noi inglesi sceglieremo sempre il mare aperto”. Con questa frase il gigante della storia britannica sembrò quasi (e non fu l’unica volta) aver dato una sbirciatina al futuro. La Brexit gli ha dato ragione.

Le ragioni profonde della Brexit

Come noto le motivazioni della vittoria del Leave sul Remain sono molteplici, alcune concrete, altre che hanno le radici nella psicologia di un popolo insulare e che, grazie ai suoi straordinari successi negli ultimi tre secoli, ha saputo creare dei cloni antropologici ai quattro angoli del pianeta. Probabilmente la reazione più istintiva di avversione all’Unione Europea da parte dei britannici, in particolare degli inglesi, nasce dai diversi tipi di sovranità sviluppatesi a Bruxelles, da un lato, ed oltre Manica, dall’altro.

Senza dilungarci troppo possiamo riassumere il potere politico dell’UE come una sovranità delle istituzioni se non addirittura della burocrazia, le quali sono de facto e parzialmente anche de iure sovrastanti alla volontà popolare: basti pensare che l’unico ente eletto a suffragio universale dai cittadini dell’Unione è il Parlamento europeo, il quale è privo di poteri reali. Subito a Nord della Manica vive invece un popolo plasmato da ben diverse tradizioni, tra le quali l’invenzione della Magna Charta Libertatum (che peccando di anacronismo potremmo definire una sorta di costituzione ante litteram) e l’essere stato il primo nella storia europea a tagliare la testa ad un sovrano per diritto divino in nome delle prerogative parlamentari. Va da sé che per un popolo avente tale pedigree un’Unione Europea, in cui a comandare sono i grandi burocrati di nomina governativa e non i politici d’elezione popolare, risultasse estranea.

Sia chiaro che nessuno è tanto ingenuo da pensare che la Brexit abbia vinto solo per motivi idealisti condotti dalla superiore maturità democratica britannica (che pure esiste): gli argomenti dei brexiteers contenevano anche una dose di realismo economico, cinismo geopolitico e sano vecchio interesse nazionale. Il realismo economico vedeva in un’unione economica a guida tedesca una minaccia per la tradizionale libertà di movimento di merci e capitali, avente nella City di Londra una delle prime piazze finanziarie mondiali. Il cinismo geopolitico nasce dalla consapevolezza che la Special Relationship con gli Stati Uniti (il sempre e reciprocamente amato figlio maggiore della Gran Bretagna, sebbene uscito dalla casa imperiale dopo una lite furibonda) rappresenta una solida colonna d’appoggio per Londra, anche qualora essa dovesse entrare in rotta con l’Europa continentale. La somma matematica di desiderio d’autonomia finanziaria, consapevolezza d’avere le spalle coperte da oltre Atlantico e l’oggettiva superiore tradizione democratica (a tratti venata di paternalistico senso di superiorità) ha dato la vittoria ai Brexiteers.

Dall’UE al CANZUK?

Da quanto letto finora risulta evidente che i britannici possiedono caratteristiche geopolitiche e psicologiche di tipo talassocratico. Essi percepiscono l’anglosfera al di là degli Oceani come un’entità certo geograficamente più lontana, ma avente un’identità molto più simile a quella della Old Britannia. Ed è qui che emerge un progetto di integrazione geopolitica assai interessante. Stiamo parlando del CANZUK, acronimo di Canada, Australia, New Zeland, United Kingdom.

Il CANZUK è la proposta di un’integrazione tra le suddette Nazioni anglosassoni, da svilupparsi in senso politico, economico, giuridico e militare. L’idea di per sé non è nuova. A (ri)parlarne nel dopoguerra fu lo storico neozelandese William D. McIntyre (1932-vivente) nel 1967 nel libro Colonies into Commonwealth. Non è un caso che la proposta sia sortita nel pieno della decolonizzazione, poiché una sorta di confederazione tra la Gran Bretagna ed i suoi Dominions (ossia Stati accomunati dall’istituzione della monarchia britannica ma indipendenti in tutto e per tutto) avrebbe salvato il meglio dell’Impero, della sua talassocrazia e del suo sacro principio economico, vale a dire il libero commercio. Tuttavia da quel lontano 1967 il CANZUK è rimasto essenzialmente un argomento per intellettuali ed accademici.

Le motivazioni della sostanziale inattuabilità della “confederazione post-imperiale” furono tre. La prima è che col progredire dell’integrazione europea anche da parte del Regno Unito sembrò che Londra dovesse infine inchinarsi alla vicinanza geografica e fondersi col continente. La seconda è che tra i Paesi candidati ad appartenere al CANZUK esistevano già ottimi rapporti politici ed accordi commerciali a vari livelli, pertanto una vera e propria integrazione venne vista come una potenziale riduzione delle rispettive sovranità, ma senza portare sostanziali vantaggi economici. Infine l’assoluta preminenza strategica degli Stati Uniti durante la Guerra Fredda sconsigliava la creazione di un’altra sovrastruttura militare parallela a quelle esistenti (NATO nel settore atlantico ed ANZUS in quello pacifico).

Oggi l’Unione Sovietica è finita nella discarica della storia, mentre gli Stati Uniti appaiono meno in grado di gestire contemporaneamente tutti i fronti planetari di quanto non lo fossero nel periodo 1941-1991. Tuttavia i problemi di rischio di sovrapposizione burocratica nelle alleanze strategiche permane, poiché al nemico sovietico di ieri si è sostituito quello cinese di oggi e gli Stati Uniti, per quanto meno predominanti di un tempo, restano saldamente il Paese leader della Civiltà Occidentale.

Un’idea che piace agli anglosassoni (per lo meno a quelli di destra)

Ma che cosa rappresenterebbe sul palcoscenico geopolitico una tale confederazione anglosassone ipoteticamente dotata di un’unica politica estera, un completo libero mercato interno e, forse, di un’unica valuta? Guardiamo qualche numero. Il CANZUK avrebbe 136 milioni e mezzo d’abitanti, forze armate in grado di competere con quelle cinesi, un’economia seconda solo a quella delle due superpotenze ed un indice di sviluppo umano tra i più elevati al mondo. Non sorprende che il progetto sia appoggiato da tutti i partiti di Centrodestra dei Paesi interessati.

LEGGI ANCHE
Razzismo e anti-razzismo negli USA: ieri e oggi

Tale sostegno da parte di conservatori e liberali nasce da un insieme di ragioni, alcune concrete, altre idealiste ed altre ancora opportuniste (un mix che si è sempre dimostrato vincente nella storia dei popoli di lingua inglese, statunitensi compresi). La libertà di spostamento da un Paese all’altro, sebbene avente i suoi rischi in un’epoca di minaccia terroristica, porterebbe indubbi vantaggi economici. Militarmente nascerebbe un’entità inferiore agli Stati Uniti e per il momento alla pari con la Cina. La Gran Bretagna tornerebbe ad essere il fulcro di un “impero” di proiezione globale, superando definitivamente le inevitabili difficoltà post-Brexit, mentre Australia e Nuova Zelanda avrebbero un’ulteriore robusta garanzia contro l’avventurismo del signore di Pechino. Il Canada, infine, rispetto ad oggi correrebbe meno il rischio di un’assimilazione soft negli USA (eterna preoccupazione canadese, sebbene mai dichiarata ad alta voce per opportunità e cortesia).

Di converso, quasi per contrappasso dantesco, i vari partiti di sinistra sono molto più freddi o apertamente ostili al progetto confederale CANZUK. Con la parziale eccezione dei laburisti e dei liberaldemocratici britannici, che sperano ancora di far rientrare in Europa il Regno Unito passando per la finestra dopo che gli elettori lo hanno fatto uscire dalla porta, le motivazioni sono di natura essenzialmente ideologica e terzomondista. Emblematico in tal senso è l’intervento dell’ex Premier laburista australiano Kevin Rudd, che ha definito il progetto una “bollock” (traducibile con “coglioneria”). Meno prosaica, ma più centrata sul nocciolo della questione, è stata l’analisti del professore canadese di affari internazionali Srdjan Vucetic. Secondo l’accademico il CANZUK altro non sarebbe che una riproposizione in tono minore e modernizzato del vecchio Impero Britannico, stavolta limitato ai soli Paesi a maggioranza bianca e quindi discriminante ed offensiva verso le popolazioni di colore. Analisi interessante e sinceramente antioccidentale quella del professor Vucetic. Da un lato accusa il progetto CANZUK di neocolonialismo razzista, ma contemporaneamente lo critica di volere escludere i non bianchi, quindi ammettendo involontariamente che il sistema imperiale di matrice britannica è stato e sarebbe tutt’oggi un oggettivo progresso per quasi tutte le popolazioni afroasiatiche (chi non ci crede vada ad Hong Kong).

Un’integrazione davvero possibile?

Fin qui abbiamo visto le potenzialità ed i pareri pro e contro a quella che, a tutti gli effetti, sarebbe una riedizione quasi al completo della Federazione Imperiale già ipotizzata nel 1884. Analizziamo ora i fattori che nel concreto possono favorire od ostacolare la nascita del CANZUK.

Tra gli elementi a favore vi è sicuramente l’opinione pubblica di tutti i Paesi interessati: infatti, l’ultimo sondaggio su una maggiore integrazione condotto nel 2018 ha visto favorevole il 73% degli australiani, il 76 dei canadesi, il 68 dei britannici e ben l’82 dei neozelandesi. Un tale sostegno popolare a quella che per ora è solo un’idea fattibile poggia su elementi concreti, quali la lingua inglese ed il sistema giudiziario comuni, la storia ed il sistema politico-economico quasi sovrapponibile. In breve l’intero modello di vita delle comunità interessate. Appare evidente che vi sono fondamenti più che sufficienti per creare un organo sovranazionale ben più efficiente della stessa Unione Europea.

Tuttavia anche i fattori che “remano contro” non sono indifferenti. Innanzitutto le distanze geografiche. Per quanto popoli gemelli, le genti di lingua inglese sparse per il mondo si sono radicate su territori lontanissimi ed assai differenti, cosa che ha prodotto sviluppi economici diversi. Da considerare poi il ruolo degli Stati Uniti d’America. La maggiore delle Nazioni di lingua inglese è una presenza al contempo positiva e negativa per gli altri Paesi figli dell’Impero Britannico e per la loro matrice, il Regno Unito. Positiva perché gli USA mai abbandoneranno i fratelli anglosassoni in caso di bisogno (come la storia ha già dimostrato) e perché Washington ad oggi resta il principale baluardo a difesa dell’Occidente. Negativa perché con il loro peso demografico, economico e militare gli USA non possono essere assimilati nel progetto CANZUK, o sarebbero gli altri ad essere assimilati negli Stati Uniti. Inoltre non è detto che la Grande Repubblica nordamericana veda con troppo favore un allentamento della sua influenza sul Canada, che al momento è assoluta su tutti i livelli (economico, militare, strategico e finanche socio-culturale). L’ultima difficoltà, infine, è il ricorrente rischio di sovrapporre troppe strutture sovrannazionali. Attualmente sia gli Stati Uniti sia i Paesi candidati a fondare il CANZUK sono alleati militari. Tale alleanza è talmente stretta da oltrepassare persino i parametri della NATO con altre tre organizzazioni: i “Five Eyes”, l’associazione dei servizi segreti dei popoli di lingua inglese; l’ABCANZ Armies, ossia il programma volto a massimizzare l’interoperabilità delle rispettive Forze Armate; infine, ultima ma non per ultima, la recentissima AUKUS, vera e propria NATO dell’Indo-Pacifico mirante a coordinare le azioni dei Paesi anglofoni nei confronti dell’espansionismo cinese.

Tutte queste organizzazioni mostrano che le grandi Nazioni di lingua inglese a maggioranza di popolazione di antica e recente origine europea sono già estremamente integrate a livello economico e militare: questo, paradossalmente, complica non poco le cose ad un’eventuale ulteriore integrazione politica.

+ post

Laureato in Storia con indirizzo moderno e contemporaneo presso l'Università di Genova. Saggista, è autore di Ucraina in fiamme. Le radici di una crisi annunciata (2016), Dal Regno Unito alla Brexit (2017), Scosse d'assestamento. "Piccoli" conflitti dopo la Grande Guerra (2020) e Da Pontida a Roma. Storia della Lega (2020, con prefazione di Matteo Salvini).