di Enrico Petrucci

Il successo sudcoreano nell’industria aerospaziale

Lo sbarco in Polonia e Slovacchia dei KAI FA-50, di cui si è parlato in un precedente articolo, per ora è solo un segnale e non una tendenza. Inoltre bisogna precisare che, almeno sul piano dei corazzati, per l’esercito i primi contatti tra Polonia e Corea del -Sud risalgono al 2014, quando la Polonia strinse il primo accordo per il semovente d’artiglieria K9 Panther, sviluppato dalla Corea. Accordo che andava a compensare i limiti dello sviluppo di un programma nazionale per un semovente d’artiglieria.

Pure questo segnale non può essere ignorato. Nonostante l’aerospazio sia un comparto storico di molte nazioni europee, la Corea del Sud ha fatto passi da gigante in meno di vent’anni. Certo pesa lo stimolo di una minaccia concreta ai propri confini come la Corea del Nord, che fa sì che la Corea del Sud spenda l’equivalente del 2,8 % del proprio PIL nella difesa. Pure, in proporzione al proprio PIL la cifra netta spesa dalla Corea del Sud è di 50 miliardi di dollari: un po’ meno di quello che spendono Francia e Germania.

Il successo delle sue esportazioni militari rende evidente come fino all’ultimo won (la moneta sudocoreana) sia stato speso bene. Anche se addetti ai lavori mormorano che a livello di main battle tank (MBT) il K2 sudcoreano non sia ai livelli degli analoghi modelli tedeschi e che naturalmente i futuri caccia europei saranno superiori al KF-B1 Boramae.

Una nazione competitiva con prodotti competitivi

Sono ovvietà da un certo punto di vista. Ma le valutazioni sul singolo prodotto non possono prescindere da quelle di una fornitura. Come ricorda il ministro Błaszczak, la valutazione va fatta nel suo complesso: quantità, qualità e ricaduta per le industrie polacche. Se non posso produrre la quantità richiesta dal mercato, è inutile proporre in vendita il prodotto migliore sul mercato. E l’Europa non sembra riuscirci, se nel momento del bisogno un Paese dell’Unione Europea si rivolge a una nazione “come” la Corea del Sud.

Quel “come”, per rilevare come la Corea del Sud (limitandosi alle statistiche stile “atlante di geografia”) possa essere del tutto paragonabile a una qualunque nazione dell’Unione Europea: 107° Paese al mondo per superficie, quasi 52 milioni di abitanti, 42 anni di età media (non tanto più bassa di quella italiana o tedesca) e un tasso di fertilità tra i più bassi al mondo (1,1 figli per donna). E una moneta propria, il won.

L’equivalente (dal punto di vista di un atlante di geografia) di una “media nazione europea” come la Corea del Sud riesce a fare quello che a noi europei, sia come singoli Stati sia come Unione, non riesce più: essere competitivi in tutti i settori. Non per nulla le Korea Aerospace Industries nascono come joint venture tra i principali campione dell’industria coreana (le divisioni aerospazio di Samsung, Hyundai e Daewoo) e oltre il 30 % delle quote sono in mano statale tra la statale Export–Import Bank of Korea e il fondo pensionistico nazionale. Ed è bene ricordare: la Corea del Sud attraverso Samsung Electronics e SK Hynix (ex Hyundai Electronics) è tra i principali attori globali del mercato dei semiconduttori, sia come sviluppo che come produzione.

Essere competitivi come Unione Europea?

Riflettere sui numeri della Corea del Sud e dell’industria coreana dovrebbe essere uno sprone in chiave europea. Soprattutto quando si torna a parlare di “Difesa europea” ed “esercito europeo”. Non si tratta di una questione “autarchica”, ma in un’ottica di una gestione comune della Difesa si dovrebbe andare verso una maggiore standardizzazione dei sistemi d’arma. Privilegiando i campioni europei anche per un discorso di indotto e ricerca e sviluppo.

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Allo stesso modo, uno dei refrain europeisti è che solo “uniti si vince” e si è competitivi a livello globale. Eppure la fornitura militare alla Polonia ci ricorda che un Paese “grande come un medio Paese europeo” è più competitivo di noi.

Ulteriore dimostrazione di quello che l’economista Ashoka Moody osservava in suo libro del 2018, EuroTragedy: A Drama in Nine Acts, e che sintetizzava in un famoso tweet che mostrava come la Corea del Sud dal 2007 abbia prima superato e poi doppiato il numero di brevetti della Germania. Unione Europea ossessionata dalla riforma del mercato del lavoro, ma il cui tessuto industriale si impoveriva sempre di più. Ecco quello sche scriveva Moody: “Questo è un altro dei miei grafici preferiti. Lo uso nell’ultimo capitolo del mio libro per sostenere che l’Europa è un continente in declino. Mentre le autorità europee sono ossessionate dalle riforme del mercato del lavoro per indebolire il potere contrattuale dei lavoratori, i Paesi dinamici vanno avanti con l’innovazione”.

Inutile riformare il mercato del lavoro, inutile avviare programmi per avere più donne nelle professioni STEM, se poi nel mondo reale non c’è una filiera dell’industria completa, che va dalle acciaierie ai semiconduttori. La Corea del Sud ce l’ha ed è competitiva. Oggi un cittadino europeo può dotarsi di auto coreane, di televisori coreani, di frigoriferi sudocoreani, di cellulari coreani (su cui si ammirano serial televisi sudocoreani e si ascoltano cantanti sudcoreani). E lo Stato europeo si dota di caccia e carri armati coreani. Tutti beni che viaggiano su navi portacontainer fatte anche in Corea del Sud. È evidente che di non tutti questi “beni” abbiamo il corrispettivo europeo, purtroppo.

Qualsiasi retorica del “più Europa” dovrebbe prima esibirsi in una riflessione sul come diventare competitivi come la Corea del Sud. Una riflessione che non può ignorare la completezza del comparto industriale di quella nazione.

Stessa riflessione si può proporre al generico autarchico nostrano che corre con nostalgia ai ruggenti anni ’80, perché purtroppo, anche nei momenti dei migliori boom della nostra industria, non siamo mai riusciti a primeggiare su tutti i settori come riesce oggi alla Corea del Sud.

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Saggista e divulgatore, tra le sue pubblicazioni Alessandro Blasetti. Il padre dimenticato del cinema italiano(Idrovolante, 2023). E con Emanuele Mastrangelo Wikipedia. L’Enciclopedia libera e l’egemonia dell’in­formazione (Bietti, 2013) e Iconoclastia. La pazzia contagiosa della cancel culture che sta distruggendo la nostra storia(Eclettica, 2020).