di Daniele Scalea

Come si pensava il voto per l’elezione del presidente degli Stati Uniti d’America sta trascinandosi molto più del consueto. Ci siamo arrivati in un clima permeato dalla narrazione, spinta da sondaggisti e media, che lo sfidante democratico Joe Biden avrebbe vinto a valanga contro il presidente repubblicano Donald Trump. Nella notte tra il 3 e il 4 novembre il quadro reale si è rivelato assai differente, tanto che Trump sembrava avviato verso una clamorosa riconferma. Improvvisamente però lo spoglio si è fermato in diversi Stati chiave dove il Presidente era ampiamente in testa, per poi riprendere in un senso favorevole allo sfidante. Sembra ora Biden ad avviarsi verso la Casa Bianca, non senza reclami da parte dei repubblicani sulla regolarità del voto.

Ecco i principali punti da annotare su queste elezioni e su ciò che ne seguirà:

1. La narrazione giornalistico-sondaggistica si è rivelata ancora una volta fallace: altro che vantaggio a doppia cifra di Biden, vittoria a valanga, umiliazione per Trump e via dicendo. In un anno orribile, colpito dalla “tempesta perfetta” della pandemia e della conseguente crisi socio-economico-sanitaria, con gran parte dei media a militare (non informare, militare) contro di lui, con gli oligopolisti del web impegnati a manipolare e censurare le informazioni per favorire lo sfidante, Trump è stato comunque altamente competitivo – proprio come avevamo previsto in tempi non sospetti. Attualmente il suo deficit nel voto popolare è di meno del 2,5%, e nemmeno le previsioni più fosche (tutte da verificare) ipotizzano che possa raddoppiarsi (avrà fatto dunque molto meglio di McCain contro Obama in un altro anno caratterizzato da una crisi inattesa, il 2008). Siccome il presidente Usa si decide non col voto popolare ma col voto elettorale, siamo entro il limite in cui un repubblicano è competitivo per la vittoria: e Trump lo è stato e, forse, lo è tutt’ora. Nel peggiore dei casi (Biden prende anche Pennsylvania e Georgia), il margine di voti elettorali sarà inferiore a quello di quattro anni fa tra Trump e la Clinton: potrebbe perdere persino la North Carolina e aver fatto comunque meglio degli ultimi due candidati repubblicani che lo hanno preceduto (Romney e McCain). In un gran numero di Stati, anche se dovesse perderli, sarà vicinissimo al rivale: un’inezia di voti ben distribuiti l’avrebbe lasciato alla Casa Bianca. E ciò escludendo dal discorso la questione dei possibili brogli, che affronteremo successivamente.

2. Che la tanto anticipata blue wave democratica non si sia materializzata lo palesa anche il risultato relativo al Congresso. Non solo i repubblicani tengono la maggioranza al Senato, ma addirittura dovrebbero guadagnare seggi alla Camera. Il Senato è fondamentale. I democratici coltivavano fantasie molto pericolose: ampliare arbitrariamente il numero dei giudici della Corte Suprema per prenderne il controllo; elevare Washington D.C., Porto Rico e, perché no?, pure Samoa e Isole Vergini a Stati federati così da conquistare la maggioranza al Senato; dare rapidamente la cittadinanza a decine di milioni di immigrati per assicurarsi la vittoria delle elezioni future. Un attacco totale al sistema di check and balances che caratterizza la democrazia americana per garantire al Partito di Biden, Obama e Hillary Clinton un predominio incontrastato sul Paese. Senza controllo del Senato, questo loro sogno smodato va in fumo.

3. Il Partito Repubblicano sta affrontando un momento particolarmente difficile della sua storia: è dagli anni ’60 che ottiene regolarmente la maggioranza del voto degli elettori bianchi, ma questi ultimi stanno diventando sempre meno in rapporto ad afro-americani, ispanici ed immigrati naturalizzati, categorie il cui voto va prevalentemente ai democratici (con punte del 90% e oltre tra i neri). Ciò ha posto loro un dilemma: come riuscire a rimanere competitivi elettoralmente? Trump ha saputo rispondere nel 2016, portando in campo repubblicano molti elettori del ceto operaio, prima d’orientamento democratico. Nel 2020 ha aggiunto un nuovo tassello, ottenendo verosimilmente un numero record di voti tra afro-americani e ispanici. Ha vinto in maniera convincente in Florida grazie ai cubano-americani, e c’è una generale concordanza sul fatto che gli ispanici in tutto il Paese abbiano sostenuto Biden meno che Hillary Clinton quattro anni fa. Per la seconda volta, e quest’anno in maniera più netta che nel 2016, Trump ha saputo tingere di rosso la contea, tradizionalmente democratica, di Robeson in North Carolina, dove 7 abitanti su 10 sono indiani d’America, afro-americani o ispanici. Potrà anche perdere queste elezioni, ma con quasi 70 milioni di voti ricevuti sarà il candidato repubblicano più votato nella storia (farà meglio anche di Obama nel 2012 e sarà vicino ai voti ottenuti dallo stesso nel 2008). In ogni caso avrà indicato al Partito Repubblicano la strada per il successo futuro, e questo non potrà facilmente ignorarlo né abbandonare la sua piattaforma, nazional-conservatrice, sovranista, populista, orientata al ceto medio e ai lavoratori.

4. Infine, affrontiamo la questione dei brogli denunciati da Trump. Si sapeva che il voto postale avrebbe favorito Biden e che, dunque, durante lo spoglio in diversi Stati si sarebbe potuto assistere a un rovesciamento di tendenza. Tuttavia è stato anomalo il modo in cui in molti Stati o città governati dai democratici lo spoglio si sia bloccato nella notte, con Trump in forte vantaggio, per poi riprendere con l’immissione di frotte di suffragi a favore di Biden. Si è assistito, in Wisconsin e Michigan, ad aggiunte di massicci lotti di voti assegnati nella loro totalità a Biden. Si sono viste anomalie come quelle nella Antrim County in Michigan, dove Trump aveva battuto la Clinton con 30 punti di vantaggio ma nel 2020 avrebbe perso di 30 punti con Biden. Solo la denuncia di tali anomalie ha portato le autorità a indagare e rettificare alcune di esse, eppure Twitter, insistendo nella propria militanza partigiana, sta censurando ogni segnalazione e recriminazione, incluse quelle del Presidente Trump. Il sito di statistica “FiveThirtyEight”, d’orientamento progressista, non si è fatto venire dubbi nell’annunciare che un lotto di 23.277 schede da Philadelphia sia andato “tutto a Biden” (nemmeno un singolo elettore di Trump là in mezzo?!). In Pennsylvania, se si concretizzerà il sorpasso di Biden, non vi saranno meno contestazioni. In quello Stato l’amministrazione (democratica), sostenuta dalla corte suprema (democratica), ha deciso che si potranno accogliere i voti giunti via posta anche dopo l’Election Day, anche se non avranno timbro postale a certificarne la provenienza e l’avvenuta spedizione prima della chiusura delle urne, e addirittura pure nel caso la firma che accompagna il plico non coincida con quella conservata nei registri per quell’elettore. In realtà è l’intero sistema del voto via posta a essere vulnerabile a irregolarità, come sappiamo pure in Italia per le varie contestazioni legate al voto dall’estero. Negli USA decine di milioni di schede elettorali sono state spedite in giro per il Paese, spesso anche all’ultimo domicilio noto di chi non ne faceva richiesta. In diversi Stati è consentito il ballot harvesting, ossia la possibilità per un attivista politico di raccogliere più schede altrui e recapitarle personalmente al seggio. Un sistema che si presta a pressioni sugli elettori, soprattutto quelli socialmente più deboli. In settembre un’inchiesta di “Project Veritas” prendeva di mira la deputata democratica Ilhan Omar accusandola di sfruttare la comunità somala (da cui proviene) per frodi elettorali.

Tutto ciò, ovviamente, non significa che per Trump sarà facile dimostrare i brogli e ottenere soddisfazione in sede giudiziaria, sebbene la maggioranza della Corte Suprema sia conservatrice. La strada che porta alla Casa Bianca passando per i tribunali è estremamente stretta. Forse nemmeno l’establishment repubblicano (appagato dalla tenuta al Senato) vorrà percorrerla fino in fondo assieme a Trump. Un leader che ha sempre percepito come imposto dalla base e mai veramente accettato fino in fondo.

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Fondatore e Presidente del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Scienze storiche (Università degli Studi di Milano) e Dottore di ricerca in Studi politici (Università Sapienza), è docente di "Storia e dottrina del jihadismo" presso l'Università Marconi e di "Geopolitica del Medio Oriente" presso l'Università Cusano, dove in passato ha insegnato anche in merito all'estremismo islamico.

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Dal 2018 al 2019 è stato Consigliere speciale su immigrazione e terrorismo del Sottosegretario agli Affari Esteri Guglielmo Picchi; successivamente ha svolto il ruolo di capo della segreteria tecnica del Presidente della Delegazione parlamentare presso l'InCE (Iniziativa Centro-Europea).

Autore di vari libri, tra cui Immigrazione: le ragioni dei populisti, che è stato tradotto anche in ungherese.