di Davide Lanfranco

Secondo qualche titolo di giornale, il 7 ottobre si terrà, contagi Covid permettendo, il primo sciopero dei militari della storia d’Italia. Come è ovvio ad ogni essere senziente, mercoledì 7 non ci sarà nessuno sciopero di soldati, finanzieri, carabinieri e marinai. I militari, così come altri, fanno parte di quelle categorie per le quali, tra le forme di protesta, non è, giustamente, previsto lo sciopero. Ci sarà invece di fronte al Parlamento una manifestazione di diverse sigle sindacali (SINAFI-SILF-USIF-SAF-LIBERA RAPPRESENTANZA-NSC-SIAM- SILME- USMIA-USIC) che rappresentano il personale con le stellette. Dalle ore 14:00 di mercoledì un centinaio di sindacalisti del mondo militare faranno sentire la loro voce ai palazzi della politica italiana.

Un fatto comunque inusuale e storico a suo modo ma che, incredibilmente, ha destato poca attenzione nei mass media. Come al solito l’interesse per gli uomini e le donne in divisa nel Belpaese si riaccende solo per le retoriche parate post-mortem (come nel caso dei nostri ragazzi morti sul campo) o quando qualche carabiniere o finanziere finisce in ceppi. Per il resto del tempo le organizzazioni militari rimangono “corpi separati dello Stato”, come si usava dire negli anni della “contestazione studentesca”.

Ma per cosa affronteranno la probabile pioggia ed i disagi imposti dalle norme anti-Covid i rappresentanti dei lavoratori con le stellette? Aumenti salariali? Richiesta di maggiori risorse ? Nulla di tutto questo. Vanno in piazza liberi dal servizio e pagandosi di tasca propria viaggio e bandiere per pretendere che la Costituzione entri pure nella caserme d’Italia. Vogliono che la politica abbia il coraggio di dare seguito alle indicazioni della sentenza 120/2018 della Corte Costituzionale.

La Consulta ha detto chiaro e tondo, ormai due anni fa, che il divieto a costituire associazioni sindacali tra militari, che vige dal 1948, è “incostituzionale” e che le strutture suppletive (COCER) sono inadeguate allo scopo. Ha invitato quindi le Camere a promulgare una legge che, pur considerando le particolarità del settore, permettesse alle numerose associazioni sindacali nate nel frattempo di agire in nome dei propri migliaia di iscritti. Dopo due anni di inspiegabili ammuine tutti i gruppi politici sembrano aver trovato la quadra, quasi senza defezioni, sul DDL Corda. Un disegno di legge che però è riuscito a scontentare tutte le sigle sindacali che, è bene precisarlo, rappresentano sensibilità sindacali e politiche anche molto distanti tra loro. I sindacati militari lamentano che, nonostante le loro audizioni in Commissioni Difesa ed i pareri di diversi esperti di diritto del lavoro e costituzionalisti, alla fine i gruppi parlamentari abbiano accolto quasi esclusivamente le richieste degli Stati Maggiori.

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Nei fatti se la legge passasse così com’è le organizzazioni sindacali sarebbero poco più che un COCER esternalizzato e depotenziato. Sarebbe ad esempio impossibile per un delegato sindacale militare ricorrere al giudice del lavoro per condotte antisindacali; in pratica lo stesso, per difendersi da eventuali condotte intimidatorie della controparte, dovrebbe ricorrere al TAR con costi e tempi enormemente dilatati. Inoltre vengono posti dei limiti incomprensibili all’azione dei sindacati militari (i paletti per le cariche dirigenziali del sindacato e per i distacchi, il computo della rappresentatività sulla forza effettiva e non su quella sindacalizzata, l’esclusione dei criteri di articolazione dell’orario di lavoro e della mobilità tra le materie di competenza del sindacato, l’impossibilità di tutelare effettivamente il personale nei procedimenti disciplinari) che ne renderebbero quasi nullo il ruolo.

Quando si parla in Italia di militari sembra si sia ancora rimasti culturalmente al dopoguerra. Ci si divide tra chi li vede come possibili golpisti (quindi li vuole imbrigliare in regole anacronistiche) e chi crede che la modernizzazione e la democratizzazione del settore possa determinare il decadimento dell’ordine e dello spirito di corpo. Se non è possibile sperare nelle decisioni di una politica poco coraggiosa sarebbe a questo punto auspicabile uno sforzo da parte della società civile a comprendere che le forze armate e le forze dell’ordine sono un settore troppo importante perché rimangano un corpo separato dello Stato.

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Laureato in Sociologia (Università La Sapienza di Roma) con Master in Economia e Finanza degli Intermediari Finanziari (Università LUISS). Da vent’anni lavora per lo Stato Italiano nel settore delle Forze di Polizia.